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La Corte ferma il piano casa della Calabria.- di Battista Sangineto

La Corte ferma il piano casa della Calabria.- di Battista Sangineto

I giudici della Corte costituzionale hanno dato seguito, con una sentenza del 23 novembre scorso, alle parole di Piero Calamandrei che agli studenti milanesi, nel gennaio del 1955, diceva: “La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità”.

La Corte costituzionale non ha lasciato la Carta in terra, ma ha mantenuto quelle promesse e quella responsabilità muovendosi per bocciare la legge del 2 luglio del 2020, n. 10, recante “Modifiche e integrazioni al Piano Casa (l. r. 11 agosto 2010, n. 21)”, varata dalla giunta regionale della Calabria. Secondo la sentenza di pochi giorni fa la Regione Calabria avrebbe voluto, con questa legge, sostituirsi “alla competenza legislativa esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente venendo meno al principio di leale collaborazione e dando vita ad un intervento regionale autonomo al posto della pianificazione concertata e condivisa (con la Soprintendenza, n.d.r.), prescindendo da questa e superandola, peraltro smentendo l’impegno assunto nei confronti dello Stato di proseguire un percorso di collaborazione”.

Così facendo si sarebbe vanificato il potere dello Stato nella tutela dell’ambiente, rispetto al quale il paesaggio assume valore primario e assoluto, in linea con l’art. 9 della Costituzione. Secondo la relatrice della sentenza, Silvana Sciarra, le previsioni della quantità di cemento versato avrebbero finito per danneggiare il territorio in tutte le sue componenti e, primariamente, nel suo aspetto paesaggistico e ambientale, in violazione dell’art. 9.

Secondo la Corte tale lesione era resa più grave dalla circostanza che, in questo lungo lasso di tempo (il protocollo d’intesa fra Mibact e Regione Calabria è del 23 dicembre 2009, n.d.r.), non si è ancora proceduto all’approvazione del piano paesaggistico regionale, ma solo al temporaneo Quadro territoriale regionale a valenza paesaggistica (Q.T.R.P.) che la giunta Oliverio non è stata capace di trasformare, come prescriveva il d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, nel definitivo “Piano paesistico”.

Tutto ha inizio con la legge regionale della giunta Scopelliti dell’11 agosto 2010 che, in virtù del “Piano Casa” voluto nel 2009 dal governo Berlusconi, permetteva il condono degli abusi edilizi e dava la possibilità di ricostruire edifici esistenti aumentandone la volumetria del 15%. Il 16 luglio 2020 il secondo governo Conte ha emanato il “Decreto Semplificazioni” che ha, di fatto, annullato questo premio volumetrico berlusconiano, ma la giunta regionale calabrese, presidente il leghista Spirlì, senza alcuna opposizione in Consiglio regionale ha cercato di eludere, prevenendolo, questo problema.

Pochi giorni prima del “Decreto”, il 2 luglio 2020, ha varato una legge regionale che non solo elargiva questo premio, ma lo aumentava di altri 5 punti in percentuale, arrivando fino ad uno spropositato regalo di volumetria pari al 20% in più per ogni edificio da ricostruire.

Quanto fosse sciagurata una simile legge lo dimostrano i numeri: in Italia, fra il 1990 e il 2005, ben il 17% (più di 3 milioni e mezzo di ettari) della Superficie agricola utilizzata, la Sau, è stata cementificata o degradata e la Calabria è in cima a questa classifica negativa con ben il 27% del suolo consumato, subito dopo la Liguria (ISTAT 2005). Un’altra statistica (Rapporto Ispra Snpa, 2015) ci dice che, al 2001, ben 7 vani su 10 del patrimonio edilizio italiano erano stati costruiti nei soli 55 anni precedenti e che le Regioni meridionali contribuiscono più delle altre all’enorme consumo del suolo, prime fra tutte la Calabria con 1.243.643 alloggi, di cui 482.736 vuoti, per poco meno di 2 milioni di abitanti, con la conseguente percentuale più alta di alloggi vuoti: il 38% (Istat 2005).

Il consumo del nostro suolo ha galoppato, nel 2020, al ritmo di 2 metri quadrati al secondo, 57 chilometri quadrati in un anno, tanto che ognuno degli italiani avrebbe oggi a “disposizione” 355 metri quadrati di superfici costruite (Rapporto Ispra Snpa, 2021). La Calabria vanta anche il record negativo di avere il 65% dei suoi paesaggi costieri stravolti per sempre dal cemento: su un totale di 798 chilometri di costa (il 19% dell’intera penisola), meno di un quarto sono rimasti intatti, mentre ben 523 chilometri sono stati deturpati da interventi edilizi, spesso illegali.

In Italia ed in Calabria si continua, nonostante il declino demografico e socioeconomico, a cementificare così tanto perché è il modo più facile per creare rendite fondiarie e immobiliari che diventano comode rendite finanziarie, anche per la ‘ndrangheta. Le scellerate politiche urbanistiche degli ultimi decenni hanno favorito l’accelerazione della cementificazione senza alcuna tutela del paesaggio come dimostrano non solo le deroghe per le Grandi Opere, ma anche i provvedimenti come lo “Sblocca Italia” e come quest’ultimo tentativo di rimessa in vigore del berlusconiano “Piano casa” da parte della giunta Spirlì.

da “il Manifesto” del 18 dicembre 2021
foto di Marco Benincasa da Pramana

Autonomia differenziata, ambiguità e silenzi di governo.-di Massimo Villone

Autonomia differenziata, ambiguità e silenzi di governo.-di Massimo Villone

L’autonomia differenziata sta ripartendo sotto copertura. Si colgono i segnali di trattative occulte tra il ministero delle autonomie e alcune regioni. Si leggono sulla stampa esternazioni della ministra Gelmini che annuncia a breve novità, per una legge-quadro erede di quella che fu già di Boccia, e per le intese con le regioni capofila (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna).

Ma tutto rimane segreto, come già ai tempi del Conte I e della ministra leghista Stefani. Mentre viene inserito tra i collegati alla legge di bilancio il disegno di legge attuativo dell’art. 116, comma 3, della Costituzione. Meglio, si inserisce l’annuncio, visto che il testo ancora non esiste.

In questo quadro si è tenuta il 30 ottobre in una sede messa a disposizione dalla Cgil l’assemblea nazionale di Noad Comitati contro qualunque autonomia differenziata. La blindatura della città per il G20 non ha impedito un’ampia partecipazione di realtà associative attente alla tutela di eguaglianza e diritti. Decine di interventi hanno richiamato i valori costituzionali in vista del comune obiettivo dell’unità della Repubblica. È stato tra l’altro chiesto lo stralcio del ddl dall’elenco dei collegati.

L’inserimento tra i collegati di un ddl non è di per sé conclusivo. Inoltre, si potrebbe arrivare a implementare il dettato dell’art. 116, comma 3, anche senza un ddl attuativo. E si può giungere ad autonomie diversificate persino senza formale ricorso all’art. 116, comma 3. Il servizio sanitario nazionale è stato già distrutto – come la pandemia ha dimostrato – dal regionalismo oggi vigente. Lo afferma l’Anaao-Assomed in un recente documento. E allora di che parliamo?

Il punto è che il collegamento al bilancio dimostra che l’autonomia differenziata è prioritaria nell’indirizzo di governo. Anzi, sopravvive con ben quattro governi (Gentiloni, Conte I, Conte II e ora Draghi). Quattro governi, e ancor più quattro stagioni molto diverse: centrosinistra, gialloverde, giallorossa, e ora dei tecnici. È prova che forze potenti spingono per realizzarla, e che una corrente profonda passa nella politica, nelle istituzioni, nell’economia, nella società civile.

Non ogni diversità territoriale va rigettata a prescindere. Ad esempio, si è avviato il 28 ottobre nell’Aula del Senato l’iter di un disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare (AS 865) volto ad inserire nell’art. 119 della Costituzione il concetto di “insularità”. In sostanza, recupera in parte e attualizza il testo originario della Costituzione del 1948 – poi cancellato dalla riforma del 2001 – che richiamava il Mezzogiorno e le Isole. Quale che sia la sorte futura del ddl, persegue un obiettivo in principio apprezzabile di maggiore tutela di eguaglianza e diritti.

Vanno invece respinte le differenziazioni che assumono le diseguaglianze come elemento propulsivo e di competitività per questo o quel territorio, in quanto capace di mettere più e meglio a frutto le risorse: Nord vs Sud, aree urbane e metropolitane vs aree interne. È la filosofia sulla quale si fonda la strategia della “locomotiva del Nord”. Una strategia che le classifiche territoriali europee dimostrano fallimentare. E rispetto alla quale l’autonomia differenziata è servente.

Molti interventi nell’assemblea hanno descritto un paese insopportabilmente diviso, in specie per sanità e scuola, ma non solo. Sono stati segnalati dubbi sulla idoneità del Pnrr a perseguire un disegno di coesione sociale e territoriale. Sono state richiamate le ambiguità nelle organizzazioni della sinistra. Spiccano – e sono da apprezzare – le iniziative in Lombardia ed Emilia-Romagna di petizioni popolari per il ritiro dei progetti di autonomia differenziata. Ma vediamo anche da ultimo il neo-sindaco dem di Torino che chiama i sindaci del Nord a una santa alleanza contro le burocrazie romane. Un nuovo iscritto al club Bonaccini?

Per chi vuole un paese più unito, più eguale, più giusto il percorso è lungo e impervio. Va anzitutto chiesta visibilità e trasparenza sui processo decisionali in atto. Va sostenuta ogni iniziativa volta a una alfabetizzazione di massa su temi non facili, come è anche il programma delineato nella mozione conclusiva dell’assemblea. Tutti dobbiamo scendere in campo. Personalmente, lavoro a una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per una riforma mirata del titolo V. Dopo venti anni, è venuto il tempo di correggere gli errori fatti, rinsaldare la casa comune, ritrovare eguaglianza e pienezza di diritti.

da “il Manifesto” del 2 novembre 2021

Lo scambio politico resuscita il morto che cammina.-di Massimo Villone Autonomia differenziata

Lo scambio politico resuscita il morto che cammina.-di Massimo Villone Autonomia differenziata

«Fear of the walking dead» recita il titolo di una nota serie televisiva. Bene si adatta all’autonomia differenziata, che dovrebbe a buona ragione essere defunta, e invece cammina ancora tra noi. Lo testimonia l’inserimento tra i collegati al bilancio del disegno di legge attuativo dell’art. 116.3 della Costituzione, fatto con la Nota di aggiornamento del DEF (NADEF).

Con il danno collaterale di una probabile sottrazione al referendum abrogativo, per il limite delle leggi di bilancio di cui all’art. 75 della Costituzione. Intendiamoci. L’inserimento di per sé non dà certezze quanto ai tempi o all’approvazione. Molti collegati non hanno poi visto la luce. Ma qui abbiamo due dati significativi.

Il primo, è che in una originaria stesura dell’elenco dei collegati il ddl sull’autonomia differenziata non era presente, ed è poi comparso nella versione definitiva, al primo posto. Questo ci dice di una pressione politica per l’inserimento che non ha trovato opposizioni significative.

Il secondo, che il ddl si inserisce nella dialettica interna alla maggioranza, e specificamente nel tormentone del dualismo Lega di lotta e di governo. Per cui il ddl può essere visto o come offa per la Lega di governo vicina a Draghi (i Fedriga, Zaia, Giorgetti) o come ciambella di salvataggio per Salvini mentre affonda – come indica il voto amministrativo – il suo disegno nazional-sovranista. O entrambe le cose. Ci stupirebbe se l’autonomia non entrasse nell’agenda degli annunciati appuntamenti settimanali di Salvini con il premier Draghi.

Ma era giusto ritenere l’autonomia differenziata defunta, o almeno caduta in catalessi? Ragionevolmente, sì. Le polemiche a partire dai pre-accordi tra Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna e il governo Gentiloni, e poi la pandemia, hanno messo in luce un paese assai più frammentato e diviso di quanto molti fossero consapevoli. Per il diritto alla salute, il regionalismo ha nei fatti distrutto il sistema sanitario nazionale, come bene afferma da ultimo l’Anaao-Assomed.

Per l’istruzione, la pressione della pandemia ha aggravato il ritardo già pesante che lede i diritti degli studenti di tutte le età in un terzo del paese. In molteplici settori si è evidenziata la necessità di forti politiche pubbliche nazionali e di regole volte a ridurre il divario Nord-Sud secondo le indicazioni dell’Europa. Mentre i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) non sono nemmeno giunti alla pista di lancio.

Invece, vengono segnali negativi sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Le polemiche sulle risorse “territorializzabili”, l’aggiunta ai fondi europei di quelli per la coesione già destinati al Sud, il “repackaging” di vecchi progetti, i bandi che aprono alle zone forti del paese come quello sugli asili nido, la comparativa debolezza delle amministrazioni meridionali, la mancanza di una chiara strategia su punti nodali come i porti, la logistica e la manifattura, prefigurano una mera riparazione dei danni da Covid e un ripristino delle preesistenze.

L’intento di costruire un paese nuovo e diverso rischia di dissolversi. Capiamo che il momento favorisce ciò che fa ripartire subito il PIL. Ma se solo questa è la logica, l’esito è concentrare le risorse sulle aree forti del paese, dove il rendimento a breve termine degli investimenti può essere presentato come maggiore, più agevole e certo. E dove, non a caso, il lobbying su chi decide è più efficace.

È bene che i governatori del Sud protestino perché mancano 7 miliardi, ed è scontata la difesa di ufficio di Giovannini sul 40% per il Sud. La questione del quantum, però, è più complessa, e si aggiunge ad altre. In specie, l’autonomia differenziata si scontra con gli obiettivi di rilancio del paese tutto assegnati a parole al PNRR. I governatori dovrebbero pretendere di vedere le carte tuttora nascoste, farle valutare da studiosi ed esperti indipendenti, e cercare sinergie da far valere nelle sedi di concertazione. Proprio in quelle il Sud negli anni è stato colpito e affondato, per colpa dei suoi ignavi governanti e per dolo degli altri.

Lasciamo perdere la favola menzognera che l’autonomia differenziata conviene al Sud come al Nord. Mettiamo la questione almeno in standby per il tempo del PNRR, e vediamo quale paese viene dall’attuazione del Piano. Diversamente, il rischio è una collisione che spinge il Sud tra i walking dead. Per essere poi seguito dal paese tutto, che rimane nella stagnazione.

da “il Manifesto” del 9 ottobre 2021

Ecco perché sostengo de Magistris.- di Piero Bevilacqua

Ecco perché sostengo de Magistris.- di Piero Bevilacqua

Col garbo e la finezza argomentativa che lo contraddistinguono, Agazio Loiero polemizza con me su questo giornale( 26/9 ) perché io, in quanto intellettuale, e dunque dotato di ampie capacità di valutazione e di giudizio, sostengo la candidatura di Luigi de Magistris a presidente della Regione Calabria.

Cercherò perciò di esporre le ragioni per cui, proprio in virtù delle doti che lui mi attribuisce, io sostengo convintamente questa candidatura.Non senza aver espresso tuttavia, preliminarmente, il disagio di una discussione così impostata, che mi pone in una posizione di “avvocatura” nei confronti di una singola persona, quando noi, a pochi giorni dal voto, dovremmo parlare dei drammatici nodi che strangolano la regione, di programmi di riforma, di prospettive possibili per le nuove generazioni.

Ma questo è lo stato degenerato della democrazia e della vita politica in Italia. Si discute solo di uomini, di alleanze, di posizionamenti, di gruppi, cioé solo di potere, di ceto politico: i cittadini, le masse lavoratrici, le loro condizioni, sfuggono al radar di ogni considerazione.

Loiero muove critica a due apetti e momenti dell’eperienza pubblica di de Magistris: in quanto magistrato, che ha operato in Calabria per alcuni anni e in quanto sindaco di Napoli, dove non avrebbe combinato granché. Da magistrato avrebbe condotto “molte inchieste quasi tutte senza successo”; e soprattutto ha inviato avvisi di garanzia a personaggi pubblici – Prodi, Mastella, lo stello Loiero – che non avrebbero poi condotto ad alcuna condanna giudiziaria. Ma, osserva Loiero, mettere sotto accusa i potenti offre a un magistrato una visibilità mediatica enorme.

Una possibilità che de Magistris ha sfruttato a piene mani. Questo dimostrerebbe che l’attuale sindaco di Napoli sarebbe “l’archetipo di una Italia guappa e furba in cui la demagogia si coniuga con il diffuso populismo”.

Non è possibile, in un breve articolo, entrare nel merito di complicate vicende giudiziarie (ammesso di possedere le conoscenze necessarie per farlo) e io posso anche concedere ad Agazio, nel merito, qualche imprudenza, errore ed avventatezza del magistrato de Magistris, allora trentenne. Ma sotto il profilo politico io traggo conseguenze opposte. Un magistrato che punta a indagare sui potenti è un uomo coraggioso, che in un paese come l’Italia rischia di rompersi l’osso del collo, di compromettere per sempre la propria carriera.

Qui non si tratta di guapperia, caso mai di temerarietà e in una regione come la Calabria, segnata da tanta corruzione e malavita, un presidente intransigente sul piano della legalità è quanto mai necessario. A de Magistris non chiediamo di tornare a fare il magistrato, ma di governare la regione.

Su un punto devo dare ragione ad Agazio, là dove affermo che il sindaco di Napoli è stato l’unico politico meridionale a schierarsi contro l’autonomia differenziata. Intendevo una figura con carica istituzionale nel momento delle trattative del 2019. Loiero è stato in effetti uno dei pochissimi dirigenti italiani a schierarsi contro la Lega, in difesa del Sud, anche con pubblicazioni, già in anni precedenti. E veniamo al sindaco de Magistris.

Davvero non si comprende la taccia di populismo che gli viene inflitta. Perché non partecipa ai giochi dei gruppi e gruppetti annidati nei partiti politici? Napoli è stata l’unica grande città d’Italia che ha reso pubblica l’acqua, abbasandone anche il prezzo, rispettando il risultato del refenendum istituzionale del 2011, dunque ottemperando a un dettato della Costituzione. Gli altri partiti politici, a cominciare dal PD, hanno sistematicamente sabotato la volontà popolare.

A Napoli de Magistris ha risolto l’umiliante problema dei rifiuti, che in certe zone della città si innalzavano sino ai primi piani dei palazzi, e lo ha fatto con pochissimi mezzi finanziari e con un rafforzamento della macchina amministrativa pubblica, contro un andazzo neoliberista che faceva prosperare la criminalità. Ha tolto il servizio di raccolta e smaltimento alle società private che si spartivano la torta, e lo affidato all’azienda comunale Asìa.

Tramite la creazione di 10 isole ecologiche, una per ogni municipalità, e cinque itineranti (per raccogliere mobili ed elettrodomestici che prima finivano per la strada) l’acquisto di nuovi macchinari, la creazione di una polizia ecologica, che ha sanzionato migliaia di trasgressori, l’esportazione in Olanda, Napoli ha raggiunto il 40% della raccolta differenziata.Oggi in quasi tutti i quartieri è diffusa la raccolta porta a porta e le tariffe TARI sono fra le più basse d’Italia.
C’è stata una importante iniziativa del sindaco, che ha avuto esiti importanti per la città, ma anche effetti negativi sulla sua immagine di uomo politico. Si è trattato di una scelta politica di legalità e profondamente antineoliberista: de Magistris ha ricondotto all’interno della macchina comunale, cioé del potere pubblico, la gestione del patrimomio immobiliare di Napoli, prima affidato all’imperenditore Romeo, finito in alcune inchieste giudiziarie.

E’ stato un gesto che solo un politico di grande coraggio come de Magistris poteva compiere, gli altri sindaci non avevano osato.Perché Romeo, membro di un potentissimo gruppo finanziario, è da lunga data amico della famiglia Caltagirone, patron del Mattino di Napoli, il più diffuso e infuente quotidiano della città. Da allora quel giornale ha iniziato una vera e propria guerra diffamatoria contro De Magistris, a cui si è associata anche La Repubblica locale, che sostiene il PD, nemico giurato del sindaco, il quale fa politiche “populiste”, cioé non viene realisticamente a patti con i potenti. Gran parte dell’immagine pubblica che abbiamo del politico De Magistris viene costruita da questi giornali e dalla TV regionale, che ubbidisce agli stessi orientamenti.

E’ dunque naturale che si sappia poco di quel che egli ha realizzato a Napoli. Ad es. non si sa dei miglioramenti i apportati al sistema del traffico cittadino, con la trasformazione di quasi tutti gli incroci in rotonde, il rifacimento di centinaia di km di strade, la pedonalizzazione di gran parte del lungomare di via Caracciolo, l’incremento del trasporto pubblico con l’acquisto di 150 nuovi autobus (rinnovando una flotta risalente al più agli anni ’90), l’apertura di 5 nuove stazioni della Metro. Tutto accompagnato dal risanamento dell’azienda pubblica di trasporto, l’ANM, il cui bilancio è ritornato in attivo. Niente male per una amministrazione penalizzata da un debito accumulato dal terremoto dell’80.

Io potrei qui dilungarmi con un lungo elenco di realizzazioni che farebbero impallidire il bilancio di molti sindaci italiani. Potrei rammentare la rigenerazione del quartiere Sanità, la “riconquista” dei Quartieri Spagnoli, un tempo luoghi pericolosi, oggi pullulanti di osterie e bar, affrescati da murales giganteschi noti in tutto il mondo. Potrei ricordare gli investimenti in verde grazie all’apertura di tanti parchi, in centro come in periferia.

Potrei rammentare i tratti di spiaggia un tempo privatizzati e riconsegnati ai cittadini, i monumenti ristrutturati, i centri culturali aperti, in centro e nelle aree degradate.Ma vorrei ricordare, che il sindaco ha inaugurato una politica di ascolto dei cittadini e dei loro diritti. Napoli è stata la prima città d’Italia a dotarsi di un registro delle unioni civili, che ha permesso il riconoscimento legale a coppie dello stesso sesso e ai loro figli, anche adottivi, esempio poi seguito anche da altre città.

Almeno questo dovrebbe bastare per fare di de Magistris un candidato degno di governare la Calabria.

da “il Quotidiano del Sud” del 30 settembre 2021

Nella brutta esperienza ho toccato con mano il “buco nero” della Sanità calabrese.- di Battista Sangineto

Nella brutta esperienza ho toccato con mano il “buco nero” della Sanità calabrese.- di Battista Sangineto

Quando, domenica 19 settembre 2021, ha bussato alla porta un ispettore dei Vigili Urbani della sua città per notificare allo scrivente una “Ordinanza contingibile ed urgente” con la quale si imponeva, a causa della sua positività al Sars-CoV-2, di sottoporsi alla misura di isolamento domiciliare a decorrere dal 30 agosto 2021, gli è montata una collera che solo il complice imbarazzo dell’ufficiale è stato capace di stemperargliela in uno sconsolato sorriso.

Sorriso reso ancora più amaro dall’arrivo, il giorno prima via e-mail, della notifica da parte del Comune della fine dell’isolamento a seguito della sua “negativizzazione” al tampone molecolare, eseguito alcuni giorni prima. Se si aggiunge che la prima telefonata da parte dell’Usca competente era arrivata all’ora di pranzo del 10 settembre -lo stesso giorno in cui è uscito su questo giornale il racconto della vicenda sanitaria, cioè ben 12 giorni dopo la comunicazione di positività fatta dal laboratorio privato- è evidente a chicchessia che la totale assenza di capacità e di tempestività da parte delle Istituzioni comunali e sanitarie preposte alla sorveglianza non solo impedisce qualsivoglia tipo di tracciamento, ma rende evidente che il distanziamento, l’isolamento e tutte le altre misure di prevenzione sono affidati solo al senso civico dei cittadini.

Quello calabrese è un tessuto istituzionale, sanitario e sociale devastato che non è in grado di fornire alcuna certezza del soddisfacimento dei diritti fondamentali del cittadino, primo fra tutti quello alla salute e alla vita. Si deve ricordare che era il 30 luglio del 2010 quando il presidente Giuseppe Scopelliti fu nominato, da Giulio Tremonti, commissario della Sanità della regione Calabria per il rientro dal debito che, all’epoca, ammontava a circa 150 milioni.

Dal 2010 ad oggi non si contano i commissari che – nonostante i pesanti tagli agli investimenti, i mancati turn over del personale sanitario, il blocco delle assunzioni, la chiusura voluta da Scopelliti di piccoli e medi ospedali che garantivano una qualche tenuta della medicina del territorio – hanno portato il disavanzo ad una cifra che alcuni, non abbiamo numeri certi, stimano essere di più di 1 miliardo. Tutto questo senza che i presidenti ed i consiglieri, alternativamente, di maggioranza ed opposizione regionali di tutti i partiti, sollevassero dubbi o ponessero il ripristino della Sanità al centro della propria battaglia politica.

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La gran parte della responsabilità della catastrofe ricade sui Commissari e sulla loro sterile e discutibile autoreferenzialità, ma deve ricadere anche sull’inanità ed incapacità della politica e dei politici calabresi degli ultimi decenni che non hanno saputo o, più probabilmente, non hanno voluto riprendersi la prerogativa che spettava loro di amministrare il capitolo di spesa più importante, l’80% circa, di una Regione: la Sanità.

Un’incapacità che non viene superata neanche nel pieno della prima ondata della pandemia quando, con il comunicato stampa ufficiale datato 11 marzo 2020 della Regione Calabria (lo si può rintracciare facilmente sul portale web della Regione), la compianta presidente Jole Santelli “…di concerto con il Commissario Cotticelli, approva il “Piano di Emergenza contro il Corona Virus”, dispone l’attivazione di 400 nuovi posti di terapia intensiva e subintensiva … già domani (12 marzo 2020, n.d.r.) sarà pubblico l’avviso per il reclutamento di 300 medici specializzati e specializzandi. Saranno, inoltre, utilizzate le graduatorie degli idonei a scorrimento per l’assunzione, sempre a tempo determinato di 270 infermieri e 200 Oss”.

I calabresi sanno che quasi nessuna delle promesse fatte nel succitato comunicato è stata mantenuta e che la responsabilità della totale inadempienza non è solo del tanto vituperato Cotticelli, ma anche di chi, la Regione Calabria, lo ha fiancheggiato, per mesi, in quella sua incredibile sconsideratezza e di chi nell’anno successivo, il presidente f.f. Spirlì, nulla ha fatto per cambiare di segno a questa più che tragica situazione. La Sanità calabrese è un orrido e putrescente buco nero senza fondo dal quale gli abitanti cercano di evadere appena possono per andarsi a curare altrove perché qui, a distanza di quasi due anni, non solo nulla è stato fatto per aumentare le capacità di prevenzione e di cura del Sars-Cov-2, ma è anche molto peggiorata l’ordinaria assistenza sanitaria che era già indegna di un paese del cosiddetto primo mondo.

Si deve ricordare che in Calabria le terapie intensive sono passate da 152 a 174, a fronte delle 280 previste già un anno fa per poter avvicinare la regione alle 14 per 100mila abitanti della media nazionale, invece delle 9,2 attuali. Senza voler tenere conto che, al netto della pandemia, a fronte della media nazionale di 3,2 posti letto ospedalieri ogni mille abitanti, la Calabria ne ha poco più della metà: 1,7.

Una situazione così catastrofica pretenderebbe una risposta dal governo Draghi, perché, nonostante il commissariamento sia della Sanità regionale con il questore Longo, sia del piano vaccinale nazionale con l’alpino Figliuolo, i calabresi non hanno visto alcun miglioramento per opera dei Migliori, anche se spettano loro le stesse cure mediche che competono, secondo l’articolo 32 della Costituzione, ad ogni cittadino italiano. Quale miglioramento si è avuto nella Sanità calabrese – ma anche nell’Istruzione, nei Trasporti, nelle Infrastrutture e nelle Strutture- per merito del governo dei Migliori? Nessuno. I Migliori non hanno migliorato assolutamente nulla, in otto mesi.

Bisogna che si torni alla “normalizzazione” della Sanità calabrese che deve essere gestita ed amministrata dalla Politica e non da Commissari, riaffermando così la primazia della Politica che, pur con tutti i suoi difetti, soprattutto in Calabria, ha i suoi meccanismi di controllo costituzionali ed elettorali

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È solo grazie ad uno dei pochissimi fortilizi di capacità e competenza che ancora resistono in mezzo alle macerie della Sanità calabrese che chi scrive è riuscito a curarsi, in Day Hospital, per mezzo dell’unico protocollo farmacologico approvato dall’Aifa, gli anticorpi monoclonali. Un protocollo che, a chi scrive, ha fatto regredire i sintomi in poche ore e che, al netto delle successive conseguenze del Long Covid, ha sconfitto l’infezione in meno di 15 giorni. Sulla scorta di questa sua esperienza, chi scrive ha una serie di domande da fare ed anche qualche fondata opinione da esprimere.

Perché l’Aifa, che pure ha approvato l’uso sperimentale di questa cura su quasi 9.000 casi (cfr.: https://www.aifa.gov.it/documents/20142/1475526/report_n.22_monitoraggio_monoclonali_03.09.2021.pdf), non ha ancora diffuso i dati delle sperimentazioni che, da marzo ‘21, si stanno facendo sulla sua efficacia degli anticorpi monoclonali? Sulla base dei dati che si dispongono -Regione Veneto: (guarigioni dell’89% su 1167 casi), Asl 3 di Napoli (100% su 50 casi), Azienda Ospedaliera di Cosenza (100% su più di un centinaio di casi)- sembra che gli anticorpi monoclonali siano davvero efficaci. E, ancora, perché il governo non fornisce il numero degli infettati, dei ricoverati e dei deceduti ‘bi-vaccinati’?

Pur dando, ormai, per scontato che ci si può infettare fra bi-vaccinati (cfr, lo studio di fine luglio dei CDC americani: www.cdc.gov/mmwr/volumes/70/wr/mm7031e2.htm?s_cid=mm7031e2_w)), lo scrivente ritiene che i vaccini siano indispensabili per la radicale riduzione della diffusione della pandemia, delle ospedalizzazioni, delle malattie gravi e delle morti, nonostante che un altro studio dei CDC americani dimostri una perdita di efficacia di potere immunizzante di Moderna, Pfizer-BioNTech e Johnson & Johnson dopo qualche mese
(cfr.:https://www.cdc.gov/mmwr/volumes/70/w/mm7038e1.htm?s_cid=mm7038e1_w).

Chi scrive sommessamente ipotizza che la vaccinazione non possa essere, però, l’unica strada da percorrere non solo per la sopradetta diminuzione di efficacia dei vaccini, ma soprattutto perché il rapido avvicendarsi delle varianti e la grande quantità di popolazioni, soprattutto del terzo mondo, non vaccinate renderanno impossibile il raggiungimento dell’immunità di gregge (cfr.: Krause et alii, in ‘Lancet’, 13.09.21, https://doi.org/10.1016/ S0140-6736(21)02046-8).

Lo scrivente vorrebbe, da vecchio sostenitore del sessantottesco sapere critico, suggerire che si debba perseguire, con maggior tenacia e con finanziamenti pubblici paragonabili a quelli già erogati, anche la strada della cura e non solo quella dei vaccini di Big Pharma che, in questi ultimi due anni, si è enormemente arricchita. I vaccini sono indispensabili, ma, purtroppo, non sono sufficienti per vincere questa malattia pandemica.

da “il Quotidiano del Sud” del 23 settembre 2021
Foto di David Mark da Pixabay

Chi può difendere il Sud dalla secessione?-di Piero Bevilacqua

Chi può difendere il Sud dalla secessione?-di Piero Bevilacqua

Una delle immagini più avvilenti degli ultimi tempi,un episodio da nulla, ma che mi ha mostrato in quale catastrofe culturale, prima ancora che politica, fosse caduta la Calabria, mi è caduta sotto gli occhi nel 2019.

Nel servizio di un telegiornale nazionale, dedicato agli impegni elettorali dei vari leader, ho visto Matteo Salvini passegiare per le strade di una città calabrese tra ali di folla, mentre una donna si chinava ai suoi piedi baciandogli la mano. Come è potuto verificarsi un gesto del genere? Tanto calore di folla e perfino l’umiliazione di un baciamano, che di solito si dispensa alla Madonna o ai capimafia? Dove vivevano quei calabresi almeno 5 o 10 anni prima? Avevano letto qualche giornale, o almeno seguito qualche programma televisivo in cui era di scena la Lega e i suoi dirigenti?

E’ davvero stupefacente constatare tanta smemoratezza, anche se so bene che in altre città della Calabria Salvini è stato vigorosamente osteggiato. Ma il punto clamoroso che rende inconcepibile l’accoglienza e il consenso a un dirigente leghista nelle nostre regioni è che la Lega è alla radice un partito antimeridionale, che nasce e continua a operare come avversario e denigratore della nostra gente. E non per gratuita cattiveria ma per strategia politica.

Debbo qui ricordare che sin dalle origini, questo partito, la Lega Nord di Umberto Bossi, fonda le sue fortune nei territori del Nord inventando fasulle identità etniche, ma soprattutto creando due nemici: “Roma ladrona” e il “Sud che vive a spese del Nord.” Questa narrazione intessuta di menzogne, ha avuto una grande fortuna – nulla funziona meglio in politica della creazione di un nemico e di un capro espiatorio cui addossare la responsabilità dei disagi e dei problemi – al punto da condizionare le politiche pubbliche a favore del Sud per i decenni successivi.

Ebbene, l’astuzia di Salvini è consistita nel trovare un nuovo nemico con cui sostituire i meridionali e Roma, che a Umberto Bossi era nel frattempo diventata simpatica, visti i lauti stipendi istituzionali di cui ha goduto e le possibilità che il suo potere di governo ha offerto alla sua famiglia.
I nuovi nemici, a partire dal nuovo millennio, sono diventati gli immigrati, i clandestini, i disperati della terra che scappavano da guerre e miseria, trasformati in criminali, violentatori delle nostre donne, venuti a rubare il lavoro agli italiani. Salvini ha continuato il lavoro di Bossi, promuovendo i meridionali a italiani così da estendere a tutto il territorio nazionale il bacino elettorale della Lega.

Ora non si tratta di rimproverare a Salvini il suo passato antimeridionale.Anche se dai meridionali si pretenderebbe una memoria critica sempre vigile, per rammentare i danni gravi che sono statti loro inflitti. Il fatto è che il partito della Lega continua con più accortezza la sua politica di sempre. Mentre infatti il suo capo viene a fare comizi nelle nostre regioni, i presidenti del Veneto e della Lombardia continuano in segreto a lavorare perl la secessione delle loro regioni dal resto d’Italia. Esse rivendicano la piena podestà su ben 23 materie (scuola, sanità, trasporti,energia, ambiente, ecc.) e soprattutto pretendono di incassare tutti gli introiti fiscali generati nel loro territorio.

In questo modo viene meno la solidarietà fiscale su cui si regge qualsiasi stato al mondo e l’Italia va letteralmente a pezzi. I meridionali possono solo immaginare quel che accadrebbe alla sanità pubblica, che nel giro di pochi anni verrebbe in gran parte privatizzata.I “viaggi della speranza” di tanti malati verso gli ospedali di Roma e del Nord avrebbero costi insostenibili. Ma è l’Italia, così com’è stata costruita a partire dal 1861, dopo 4 secoli di divisioni e di asservimento allo straniero, che verrebbe di nuovo riportata agli statarelli di antico regime.

Ne abbiamo avuto la prova nel 2019, quando si stava per realizzare in gran segreto, saltando il Parlamento,l’accordo tra Veneto, Lombardia, Emilia Romagna e il governo nazionale. In quei mesi, anche Piemonte, Liguria, Umbria manifestarono la stessa volontà di secessione, anticipando quel che sarebbe accaduto se l’accordo fosse stato raggiunto.

Ebbene, non c’è dubbio che l’autonomia differenziata costituisca la più grave minaccia che grava ancora oggi sull’avvenire del nostro Paese:la frantumazione territoriale che ci ha reso irrilevanti in Europa per tutti secoli dell’età moderna. E e allora come è possibile che ci sia così tanto poco allarme e informazione su tale gravissimo pericolo? I motivi sono due.I grandi giornali nazionali sposano ormai la posizione di gran parte dell’industria e della finanza del Nord, secondo cui il Sud costituisce un freno all’economia nazionale.Quindi sono d’accordo sulla secessione e tacciono. L’altra ragione riguarda i partiti e soprattutto il PD, l’unica formazione con insediamento locale, che avrebbe interesse a contrastare la Lega, soprattutto al Sud, ricordando i suoi propositi secessionisti. Ma questo non accade, perché una delle regioni chiave di questo partito, l’Emilia Romagna di Bonaccini, rivendica anch’essa l’autonomia differenziata, sebbene su un numero minore di materie.

Debbo qui rivelare una esperienza personale.Nei mesi che precedettero la campagna elettorale amministrativa del 2019, insieme ad altri amici, avevamo tentato di organizzare una carovana di uomini e donne che partisse dal Sud e arrivasse al Nord, con un pulman, per spiegare al maggior numero possibile di cittadini qual’era la vera strategia della Lega: Salvini che faceva l’italiano al Sud e i presidenti di regioni che lavoravano per la secessione. Per tale iniziativa fui all’inizio sostenuto dalla CGIL nazionale.Ed ebbi vari incontri a Roma, nella sede centrale di Corso Italia. Ma a un certo punto tutto naufragò, la disponibilità del sindacato venne ritirata. Nessuno lo disse esplicitamente, ma il PD non voleva che si danneggiasse la campagna elettorale di Stefano Bonaccini e il tema secessione non andava sollevato.

Un’arma efficacissima per battere la destra nel Sud e in Calabria fu abbandonato. Ebbene, agli amici stupiti che tanti intellettuali si siano schierati a fianco di De Magistris, debbo ricordare che questo leader è stato l’unico politico meridionale a schierarsi contro la secessione leghista e la semisecessione di Bonaccini; che nella sua lista annovera figure di prim’ordine estranei ai giochi nazionali dei partiti, tra cui Mimmo Lucano, il quale, come sindaco di Riace, ha riscattato l’onore della Calabria agli occhi del mondo.A chi denigra la sua figura di sindaco di Napoli ha già risposto su questo giornale Pino Ippolito(6/9).

Io aggiungerei che chi vuol valutare con onestà quella esperienza, deve considerare il grave debito che egli ha ereditato dalle precedenti amministrazioni, lo strangolamento finanziario subito da tutti i comuni italiani in questi anni, il fatto di amministrare la più difficile città d’Italia avendo contro tutti i partiti, la grande stampa e la TV nazionale. Che un personaggio così isolato, privo di mezzi e osteggiato sia stato riconfermato sindaco, ai calabresi onesti dice che potrebbe essere un ottimo presidente di Regione . Che egli venga diffamato perché a Napoli non ha fatto “questo” e quello” è in tanti casi la prova che il personaggio non rientra negli schemi del conformismo politico dominante. Quel conformismo che occorre far saltare per l’avvenire della Calabria.

da il “Quotidiano del Sud” del 22 settembre 2021

Stato-regioni, la “leale collaborazione” non basta.-di Massimo Villone

Stato-regioni, la “leale collaborazione” non basta.-di Massimo Villone

Nella relazione sull’attività della corte costituzionale svolta dal presidente Coraggio viene segnalato ancora una volta il pesante contenzioso tra stato e regioni, e si richiama in particolare la pandemia, per quello che lo stato avrebbe potuto e dovuto fare, e non ha fatto. Citando la recente sentenza 37/2021, Coraggio ricorda che la competenza esclusiva della stato in materia di profilassi internazionale «avrebbe dovuto garantire quella unitarietà di azione e di disciplina che la dimensione nazionale delle emergenze imponeva e tuttora impone». Un obiettivo – si deve intendere – fallito.

Non si può che essere d’accordo, come abbiamo più volte scritto su queste pagine. Ma qui le considerazioni da fare sono almeno tre. La prima, che possono aversi emergenze a dimensione nazionale non riferibili alla profilassi internazionale, come ad esempio un terremoto di gravissima entità; la seconda, che esistono questioni che hanno una dimensione nazionale non qualificabili come emergenze in senso stretto, come il divario Nord-Sud; la terza, che la dimensione nazionale trova nel titolo V della Costituzione un proprio autonomo strumento attuativo solo in misura parziale.

Nel Titolo V la dimensione nazionale non è fortemente presidiata, e in specie non è assistita da una posizione di supremazia. Un implicito riconoscimento si può trovare nell’art. 120 della Costituzione, che assegna allo stato un potere sostitutivo nei confronti di regioni ed enti locali per la tutela di una dimensione nazionale. Un siffatto potere non può non presupporre una supremazia. Ma può essere esercitato solo ex post, per correggere una violazione già avvenuta. Non a caso, la stessa Corte ha ampiamente elaborato il principio di leale collaborazione, che il presidente Coraggio richiama. Il punto è che esso trova il suo ultimo e fisiologico esito nell’intesa, e concettualmente nega qualsiasi supremazia nel rapporto cui si applica.

Ne vengono due possibili alternative. La prima: si introduce una clausola di supremazia esplicita nell’art. 117 della Costituzione, in specie applicabile anche all’art. 116, comma 3, sull’autonomia differenziata (come ho suggerito in una audizione parlamentare sui disegni di legge in discussione). Il secondo: la corte muta parzialmente rotta nella lettura del rapporto stato-regioni, assumendo che un principio di supremazia sia in ogni caso desumibile dal sistema costituzionale nel suo complesso, a partire dall’unità e indivisibilità della Repubblica e dalla tendenziale necessaria uguaglianza nei diritti fondamentali.

E nemmeno basterebbe. Infatti, un potere viene esercitato solo se il titolare così decide. Diversamente, rimane sulla carta. È esattamente quello che è accaduto per l’art. 120 nel caso della pandemia. Alla fine, tutto dipende dal decisore politico, e dalla volontà normativa che esso esprime. La corte, che lascia molto spazio alla discrezionalità legislativa, se ne è resa ben conto quando ha messo in campo la «incostituzionalità prospettata», richiamata dal presidente Coraggio, in specie per il caso Cappato e la diffamazione a mezzo stampa.

Ma allora come poter essere certi, quando sono in gioco i diritti di minoranze, che i giudici siano «garanti di una democrazia veramente inclusiva» come il presidente sottolinea? Anche qui due strade. La prima: la Corte riduce la discrezionalità riconosciuta al legislatore, definendo più ampiamente e in dettaglio il nucleo incomprimibile dei diritti. La seconda: si garantisce con la legge elettorale un parlamento ampiamente rappresentativo scelto da elettrici ed elettori, e senza distorsioni di tipo maggioritario in chiave di supposta governabilità. E sarà quella la sede primaria della «democrazia inclusiva».

Nel sistema istituzionale tutto si tiene. Nel confronto in atto i segnali non sono buoni, e non basta certo una relazione del presidente della corte a riportarlo sui binari giusti. La battaglia è – e rimane – politica.

da “il Manifesto” del 15 maggio 2021

DEF 2021: è stata prevista l’Autonomia Differenziata! Comunicato stampa. Il governo Draghi con il Documento di Economia e Finanza 2021 ha confermato, tra i disegni di legge collegati alla legge di Bilancio 2022-2024, il DDL “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’art.116, 3° comma, Cost.”.

DEF 2021: è stata prevista l’Autonomia Differenziata! Comunicato stampa. Il governo Draghi con il Documento di Economia e Finanza 2021 ha confermato, tra i disegni di legge collegati alla legge di Bilancio 2022-2024, il DDL “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’art.116, 3° comma, Cost.”.

Il governo Draghi con il Documento di Economia e Finanza 2021 ha confermato, tra i disegni di legge collegati alla legge di Bilancio 2022-2024, il DDL “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’art.116, 3° comma, Cost.”.

Ha, cioè, riproposto al Parlamento – e Camera e Senato hanno accettato, ratificando il DEF 2021 lo scorso 22 aprile (ed è la terza volta consecutiva!) – di riservare un iter legislativo privilegiato ad una proposta di legge che ratifichi l’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario, con il rischio aggiuntivo che, qualora intervenisse – modificandoli – sui capitoli di bilancio 2022-2024, essa potrebbe essere sottratta a qualsiasi richiesta di referendum abrogativo.

Tale fatto politico non può essere considerato né una pura distrazione né una mera concessione alla Lega ed ai sostenitori dell’autonomia differenziata per tenere unita la maggioranza.

Si tratta di una provocazione irresponsabile.

Non si può riaprire la strada politico legislativa, seppure nel prossimo futuro, a velleitarie prassi secessioniste e autarchiche, mentre la epidemia pandemica Covid-19 sta imperversando ancora sul popolo italiano in tutte le regioni del Nord, del Centro e del Sud e continuano a realizzarsi diseguaglianze nell’accesso ai vaccini tra i cittadini e le cittadine delle diverse regioni.

Non sono bastate tutte le pessime prove che le amministrazioni regionali hanno fornito nella pretesa di definire autonomamente (e velleitariamente) norme e regole in ambito di sanità, scuola, trasporti, beni culturali?

Non sono bastati i morti e gli effetti disastrosi sull’economia sulla convivenza civile e sociale, in particolare per le fasce deboli e non protette della società, in cui le epidemie producono i loro effetti più gravi?

Purtroppo, anche il governo Draghi (in continuità con il Conte bis e quindi ancor più colpevolmente) non ha voluto ricorrere:

– all’art. 120 della Cost. comma 2°: “Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni (omissis) quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”,

– all’art. 117 comma 2 lettera q, che prevede la profilassi internazionale tra le materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato, richiamata dalla Corte Costituzionale con comunicato del Comunicato del 24 febbraio 2021.

– all’art. 6 della Legge 833/78, che recita: “Sono di competenza dello Stato le funzioni amministrative concernenti: (omissis) b) la profilassi delle malattie infettive e diffusive, per le quali siano imposte la vaccinazione obbligatoria o misure quarantenarie, nonché gli interventi contro le epidemie e le epizoozie”.

Ci rifiutiamo di credere che il Parlamento voglia assumersi la responsabilità storica di aggravare disastri già provocati dalla prima regionalizzazione attuata in applicazione della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001.

Proprio ciò che è successo e sta succedendo in conseguenza di quella riforma, compresi gli scontri tra Stato e regioni, dimostra che un solo passo in più sulla strada dell’autonomia regionale aprirebbe scenari inquietanti di vera frantumazione della Repubblica, di balcanizzazione del Paese.

Ciò di cui ha bisogno il Paese è di fermarsi, non di procedere ulteriormente nella divisione.

Da parte nostra, non staremo a guardare e ci mobiliteremo, anche con petizioni popolari, per fermare questo scempio.

Non lasceremo le proteste di piazza alle destre.

Già abbiamo iniziato: dal il prossimo 25 Aprile si aprirà in Emilia-Romagna la raccolta di firme per una petizione per il ritiro della richiesta di autonomia differenziata avanzata nel 2018 dalla regione Emilia-Romagna.

Perseguiremo lo stesso obbiettivo in tutte le regioni a statuto ordinario.

Lo faremo nel nome della Resistenza, nel nome della Costituzione, nell’interesse del mondo del lavoro e delle componenti fragili della società; ci batteremo perché la Repubblica rimanga una e indivisibile, per garantire uguaglianza dei diritti e ottemperanza ai doveri, contro vecchie e nuove diseguaglianze.

Lo faremo con quanti – cittadine e cittadini, associazioni, sindacati, partiti, personalità, organi di stampa e mass media – condividono le ragioni di questa lotta e l’impegno per tenere unito il Paese.

Il Parlamento e le Regioni abbandonino una volta per tutte e per sempre ogni tentazione di autonomia regionale differenziata!

***comitato stampa contro qualunque autonomia differenziata, per l’unità della Repubblica e l’uguaglianza dei diritti

Area dello Stretto.- di Tonino Perna La Calabria è una regione ingovernabile anche perché non esiste.

Area dello Stretto.- di Tonino Perna La Calabria è una regione ingovernabile anche perché non esiste.

Diciamolo subito: la Calabria è una regione ingovernabile anche perché non esiste. Fu una invenzione istituzionale del 1970 quando vennero istituite le regioni. Da sempre, ed ancora oggi in Sicilia, si dice vado nelle Calabrie. In tutta la letteratura di viaggio, nei vecchi libri di geografia la dizione esatta era: Calabria Citeriore e Calabria Ulteriore. Le due Calabrie separate dall’istmo di Lamezia.

La Calabria Citeriore è, per storia-cultura-tradizioni, molto più vicina alla Campania e Basilicata, ha da sempre risentito dell’egemonia napoletana, mentre la Calabria Ultra è stata storicamente legata alla Sicilia, soprattutto quella parte che si affaccia sullo Stretto di “Scill’è Cariddi”, come lo chiamava Stefano D’Arrigo nel suo celebre romanzo “Horcynus Orca”. Sulla sponda siciliana storicamente Messina è sempre stata legata, sul piano culturale ed economico, a Reggio, a Bagnara, Scilla e Palmi, nonché ai paesi dell’Aspromonte.

Gli scambi di persone e merci tra le due sponde è sempre stato molto intenso fino agli anni ’70 del secolo scorso. Con la nascita delle Regioni la città della Madonna della Lettera ha girato lo sguardo verso Palermo, così come Reggio ha dovuto gioco forza rivolgersi a Catanzaro dove si concentravano le risorse economiche più rilevanti.

A distanza di cinquant’anni è chiaro che bisogna rivedere il modo con cui sono state istituite le Regioni. Intanto, in molti settori vitali –sanità, scuola, Università, trasporti – lo Stato deve riprendere le redini e togliere tutti i poteri che sono stati, grazie anche alla modifica del Titolo V della Costituzione, dati impunemente alle Regioni. E in questo riassetto istituzionale si può prevedere anche un ridisegno delle Regioni.

In quest’ottica si può pensare di accorpare Abbruzzi e Molise, ad esempio, così pure la Calabria Citeriore e la Basilicata, e pensare ad una città metropolitana dello Stretto a cui possano aderire tutti i Comuni limitrofi che ne fanno richiesta. Ad oggi abbiamo due finte città metropolitane in quanto il legislatore ha trasformato, con un colpo di penna (neanche stilografica) due Province in città metropolitane. Un obbrobrio.

Purtroppo, ogni volta che si pensa all’integrazione tra le due città salta fuori dall’armadio lo scheletro del ponte sullo Stretto. Un progetto abortito da molti anni, dove sono stati spesi inutilmente milioni di euro, pur sapendo della sua non fattibilità. Come disse una volta l’ex rettore dell’Università Mediterranea , Alessandro Bianchi, il ponte sullo Stretto ha costituito per decenni un’arma di distrazione di massa. Centinaia di ricercatori, di tecnici, di studiosi sono stati sprecati e avrebbero potuto dare un contributo rilevante in altri campi.

Rilanciare oggi la proposta del ponte sullo Stretto vuol dire prendere ancora una volta in giro i cittadini, anche semplicemente perché il Recovery Fund finanzia solo progetti che debbono essere completati in cinque anni!
Detto questo rimane il problema del collegamento tra le due città metropolitane, le uniche in Italia (e direi nel mondo) che distano solo 12 km, tra i due centri storici , e 3,3 km nel tratto più breve tra Cannitello (Villa S.G.) e Ganzirri (punta estrema della Sicilia verso il continente).

Bisognerebbe potenziare i collegamenti via mare, che sono stati ridotti negli ultimi decenni e pensare a possibili forme istituzionali di unione tra le due città metropolitane. Il mio sogno sarebbe quello della “Regione dello Stretto”, ovvero di due province autonome, sul modello del Trentino Alto Adige. Ma, capisco che si tratta di un sogno.

È necessario comunque pensare a garantire il diritto alla continuità territoriale, come avviene con altre isole del nostro paese, oggi impedito da proibitive tariffe di attraversamento dello Stretto. E poi, in ogni caso, bisognerà trovare delle forme istituzionali idonee a favorire una reale fusione tra le due città della Fata Morgana. O bisogna accontentarsi che si rinnovi questo miracolo della natura che le congiunge attraverso un fenomeno di rifrazione della luce?

I Nuovi Comuni, ente intermedio al posto delle Regioni.-di Arturo Lanzani e Filippo Barbera

I Nuovi Comuni, ente intermedio al posto delle Regioni.-di Arturo Lanzani e Filippo Barbera

Le Regioni italiane sono molto diverse, ci ricorda Piero Bevilacqua nel suo recente articolo (il manifesto, 25 novembre). In questa diversità, hanno una comune “qualità”: sono enti iper-legiferanti, mini-Stati. Le Regioni gestiscono e distribuiscono risorse scarse a gruppi in competizione, a discapito dell’adozione di politiche pubbliche e strategie di interesse collettivo, organizzate per missioni e progetti. All’inadeguatezza delle Regioni si è sommato il fallimento della Legge Del Rio che ha istituito le città metropolitane, Enti di area vasta ma privi di un governo politico. Il sindaco della città metropolitana non è un sindaco: non governa politicamente il territorio di competenza. Non negozia o contratta con l’insieme dei sindaci strategie di sviluppo, infrastrutture connettive e politiche pubbliche.

Le proposte di revisione dell’assetto istituzionale dei poteri locali non mancano. Una proviene dai lavori della società geografica italiana e guarda in una direzione “cantonale”, che si affranchi dalle sirene della finta abolizione delle Provincie – più radicate delle Regioni nella storia e nelle forme di vita del nostro paese – ma lavori per un ridisegno e riduzione del loro numero (una trentina di provincie “rafforzate”) come unico livello di governo, sostitutivo di quello regionale e provinciale. Una sorta di livello intermedio tra Comuni (lasciati però nella loro numerosità e frammentazione) e il livello centrale, le cui funzioni non sono precisamente definite.

Una proposta meritoria, ma con scarse probabilità di trovare ascolto politico. Chi mai si mobiliterebbe in questa direzione? Con quali alleanze? Una seconda proposta, di chi scrive, è quella di ritenere che nella storia d’Italia contino solo i Comuni come altra gamba del livello nazionale, anzi che debba contare un “Nuovo Comune” che si vorrebbe rafforzare nella sua funzioni politica e istituzionale – ma non tanto con l’illusione leaderista dell’elezione diretta del sindaco – ma articolandolo, da un lato in N “tipi di città” – maturate attorno ai legami di storici distretti industriali, di valle (spesso riproducendo le forme di coesione delle più felici comunità montane gravitanti su centri o conurbazioni di valle o pedemontane), di costa attorno urbanizzazioni interconnesse, di distretti rurali o di campagna urbanizzata con più tradizionale gravitazione su una città media, ma anche più originalmente “città” unificate da un tratto profondo comune dell’ambiente e del paesaggio che si è fatto fattore identitario e di sviluppo-secondo principi plurali e aggregativi, capaci di dare luogo a 500-1.000 città per l’intero paese.

Dall’altro, articolando queste N città in Municipi, calibrati in un intervallo compreso tra i 3.000-50.000 abitanti, corrispondenti ai vecchi Comuni a suddivisioni di quelli più grandi e ad aggregazioni di quelli più piccoli. Questi “Nuovi Comuni” dovrebbero quindi essere articolati in due livelli: al primo livello, strutture territoriali esito di variegati processi ecologico-sociali che diventano a loro volta strutturanti le stesse pratiche sociali e dinamismi ecologici, si organizzerebbero le tecno-strutture e le istituzioni culturali che sono indispensabile supporto di qualsiasi politica e progetto e si svilupperebbero alcune politiche sistemiche (usi del suolo, mobilità, reti verdi); il secondo livello, maggiormente riconfigurabile nei suoi stessi confini alla luce di progettualità e visioni complesse di medio e breve periodo, diventerebbe presidio ed espressione delle forme di cittadinanza attiva, ambito della redistribuzione dei poteri e dei saperi, con il compito di rinforzare e curare la capacità di “voce” e “azione” di persone, associazioni e corpi intermedi. Questo “Nuovo Comune” sarebbe così il luogo di incontro generativo delle due istanze, delle città e dei municipi, così come lo strumento per costruire visioni di futuro condivise.

Questa proposta avrebbe qualche probabilità in più di trovare ascolto politico, perché potrebbe essere presentata come una riforma e un rilancio del “municipalismo virtuoso” contro la “burocratizzazione regionale”: una riforma che spinge ad aggregarsi superando particolarismi strumentali, incapaci di affrontare i problemi che interessano la vita quotidiana delle persone, senza cancellare identità locali che rimangono sentite e capisaldi di ogni forma di civismo. I “nemici” qui sarebbero ben identificabili nei governatori regionali e nei sindaci delle grandi città, una lotta ancora impari che richiederebbe una alleanza con la classe dirigente nazionale per uno Stato che riconosca il policentrismo come tratto unificante e si faccia carico – dal centro – sia di strategie-missioni territoriali relative a cinque grandi questioni nazionali.

Tre almeno parzialmente riconosciute e relative allo sviluppo del mezzogiorno, alla riorganizzazione degli ambiti metropolitani-grandi città del paese e alla promozione dello sviluppo e alla garanzia dei fondamentali diritti di cittadinanza per le aree interne. Due invece di nuova concettualizzazione ma egualmente urgenti e relative, al riordino del territorio costiero con il suo enorme carico insediativo e a fronte degli effetti del cambiamento climatico e alla sempre più urgente riconversione ecologico-ambientale della dinamica, ma poco vivibile e salubre, pianura padana. Sia di strategie più specifiche relative ai bacini fluviali, alle aree sismiche, ai sistemi di mobilità sovraregionali e ai rapporti di scambio e di flussi tra territori metro-montani e metro-rurali (nord-ovest, nord-est, arco ligure, dorsale adriatica, etc.) Una alleanza che, dall’alto e dal basso, provi a imporre al Paese un nuovo assetto dei livelli di governo coerenti con il policentrismo del Paese, non basato sulla facile e inutile indignazione che ha portato alla cancellazione degli enti intermedi e all’istituzione di enti territoriali privi di guida politica.

da “il Manifesto” del 2 dicembre 2020
foto: wikipedi, https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/de/legalcode

La deriva progressiva delle Regioni parallela a quella dei partiti.-di Piero Bevilacqua.

La deriva progressiva delle Regioni parallela a quella dei partiti.-di Piero Bevilacqua.

Il dibattito in corso su questo giornale (il Manifesto) sul fallimento delle Regioni, condotto da Filippo Barbera, Angelo D’Orsi, Laura Ronchetti, Battista Sangineto merita di essere ripreso. È il caso di ricordare che le istituzioni non si inventano a tavolino, ma rappresentano forme di regolazione degli interessi collettivi sorgenti da bisogni locali, morfologie del territorio, culture diffuse, tradizioni storiche. E qui torna in mente Carlo Cattaneo, che nel suo La città considerata come principio ideale delle istorie italiane notava come nessun abitante di Bergamo o di Lodi si definisse lombardo, identificandosi quale abitante di quella regione, ma come bergamasco e lodigiano.

A lungo tuttavia quella dei comuni è stata immaginata come una storia limitata all’Italia centro-settentrionale, pagina di indubbio splendore civile, trascurando le esperienze coeve del Mezzogiorno. Che non sono state alla pari, ma certo non marginali, come mostra la recente ricerca storica, non solo per il ruolo avuto dai comuni (università), pur all’interno dell’ordinamento feudale del Regno, ma per il protagonismo di tante città. Non è del resto senza significato se ancora oggi un napoletano o un salernitano stenteranno a presentarsi come campani cosi come un abitante di Bari o Lecce non sente alcuna necessità di dirsi pugliese al cospetto di un forestiero.

Ovviamente l’osservazione vale per regioni “artificiali” come il Lazio e a maggior ragione per quelle del Centro-Nord. Dunque un rapporto di identificazione storica dei cittadini col territorio regionale si può rinvenire forse per la Calabria, con più deboli tradizioni cittadine (ma a lungo definite le Calabrie), e le isole, ma ricordando la preminenza delle città nella storia della Sicilia.

Dunque a una lunga vicenda di ordinamenti amministrativi incentrati sui comuni, coordinati da un’altra istituzione storica di antica data, le province, rispondenti alla necessità di una tessitura di più ampio raccordo territoriale, si è sovrapposto, nel 1970, un castello istituzionale che non rispondeva ad alcun bisogno amministrativo, senza alcun fondamento culturale, privo di radici storiche che non fossero le remote regioni augustee.

Il nuovo organismo, cui erano affidate più cospicue risorse pubbliche e più estese autonomie, veniva a comportare per i cittadini un ulteriore compito di partecipazione e di controllo democratico, che si aggiungeva a quello richiesto storicamente dagli altri organismi. Un compito che poteva essere svolto solo grazie alla presenza di forze organizzate, i partiti, in grado di assolvere i nuovi impegni di rappresentanza.

E difatti alcune regioni del centro Nord, nei primi decenni, hanno svolto con qualche efficacia i nuovi compiti, soprattutto laddove il Partito comunista italiano – il principale agente di disciplinamento civile dell’Italia repubblicana – aveva più estesi insediamenti, come in Emilia e Toscana ed Umbria. Significativamente, la progressiva degenerazione di questo istituto, diventato un centro moltiplicatore di spesa pubblica incontrollata, inizia con la dissoluzione clientelare dei grandi partiti, di cui gli stessi governi regionali hanno costituito un terreno di coltura e sviluppo. Sarebbe oltremodo interessante una ricostruzione storica del ruolo avuto da tali organismi nella formazione del nostro debito pubblico.

Naturalmente la degenerazione delle Regioni ha preso a galoppare dopo la riforma del sistema elettorale del 1999. L’elezione diretta del presidente, diventato ben presto una sorta di sovrano assoluto, con conseguente emarginazione del Consiglio regionale e l’affidamento di fatto del controllo di legalità agli organi della magistratura. La riforma del Titolo V della Costituzione ha inevitabilmente portato alla situazione attuale: le regioni non tendono ad allargare il potere, stanno disarticolando le stato, puntano, con l’autonomia differenziata, a smembrare il Paese.

Uno stato-unitario che ha poco più di 150 anni di vita. Una prova inquietante di questa deriva è venuta lo scorso anno dal semiconsenso alla richiesta di autonomia differenziata da parte di Veneto, Lombardia e Emilia esibito da De Luca ed Emiliano e dal silenzio degli altri presidenti meridionali. E’ evidente che tutti i nostri cacicchi, a Nord e a Sud, un pugno di politici mediocri e irresponsabili, sono pronti a fare ritornare l’Italia agli statarelli preunitari per pura ambizione personale.

Ora non si tratta di difendere il vecchio centralismo, occorre rafforzare al contrario il potere dei comuni, l’organo più vicino alla possibilità di controllo dei cittadini, rendendo più democratico e trasparente il loro governo e ridando nuove e più ampie funzioni di raccordo territoriale alle province. È il modo di rispondere ai bisogni di decentramento di uno stato moderno senza mandarlo in pezzi. Occorre ricordare che la politica è vittima del crollo antropologico subito dalle società in Occidente. Nessun legame ideale tieni più uniti i Narcisi solitari che son diventati i cittadini. Lasciare pezzi di territorio in mano a poteri personali è un rischio che l’Italia non può correre.

da “il Manifesto” del 25 novembre 2020
foto: Puzzle Italia in legno

Alle regioni l’80% delle risorse. Il Covid misura il fallimento.- di Battista Sangineto

Alle regioni l’80% delle risorse. Il Covid misura il fallimento.- di Battista Sangineto

Credo che sia abbastanza chiaro a tutti che, alla tragica luce dell’apocalisse sanitaria in corso, la regionalizzazione della sanità è stato un terribile errore. La gestione del Servizio sanitario è nelle mani di amministratori regionali non solo incapaci di opporre alcun valido contrasto alla diffusione del virus, come è avvenuto con le aperture delle discoteche in Sardegna, ma, ora, devono continuamente ricorrere allo Stato per cavarsi d’impaccio.

La sciagurata modifica del Titolo V, non solo non ha reso più efficienti e responsabili i governi locali, ma ha approfondito le differenze fra nord e sud ed ha indebolito il SSN, frantumandolo in venti centri di spesa, di inefficienza e di corruzione.

Si pensi solo alla disperante situazione della Calabria che, ad oggi, non ha ancora neanche un Commissario. Questa tragica débâcle dovrebbe dare modo di ripensare in maniera radicale, come hanno scritto su questo giornale Pallante e d’Orsi, non solo alla regionalizzazione della Sanità, ma anche alla utilità delle Regioni che potrebbero essere sostituite, come Ente intermedio, dalle ben più storicamente radicate Province.

La prima e, fino al 1948, ultima idea di dividere l’Italia in regioni, del resto, fu di Augusto che, nel 7 d.C., suddivise il territorio della Penisola in undici aree, indicate con i numeri, prima ancora che con i nomi. Le regiones augustee, peraltro, assomigliavano pochissimo a quelle attuali tanto che, per esempio, a nord del Po ne esistevano solo due, la IX a ovest e la X a est, con l’attuale Lombardia divisa a metà, mentre l’estremo lembo della Penisola era accorpato in un’unica regione, la III, ‘Lucania et Bruttii’.

I criteri augustei per la ripartizione del territorio della Penisola in regiones erano di ordine etnico e politico. Volti a valorizzare le antiche e differenti tradizioni storiche e culturali, ma con il precipuo compito, ideologico, di conferire unitarietà, nell’ambito dell’impero, allo spazio italiano.

Dopo la fine del mondo antico ed il disfacimento dell’ordinamento romano, abbiamo notizia delle regioni solo a partire dalla Costituzione di Melfi (1231) di Federico II, nel Sud d’Italia, passando per le regioni linguistiche-culturali di Dante Alighieri fino ai vari disegni regionali del Biondo e dell’Alberti; per arrivare, infine, ai disegni del XVIII secolo e ai “dipartimenti” introdotti negli Stati “napoleonici” in Italia. Solo con l’Unità d’Italia Cesare Correnti e Pietro Maestri, disegnarono, nel 1864, la suddivisione in 14 ‘compartimenti’ che avrebbero voluto far diventare Enti governativi intermedi, ma che furono usati, invece, solo per meri fini statistici.

L’Assemblea Costituente, nel secondo dopoguerra, riprese l’idea regionalista, soprattutto sturziana, che fu portata avanti, riassumendo e semplificando, soprattutto dalla Democrazia Cristiana, in funzione di garanzia rispetto ad una eventuale vittoria delle sinistre alle elezioni nazionali.

Erano sostanzialmente contrarie al regionalismo le sinistre e anche le forze laiche e liberali, mentre c’era un partito, il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia che, dopo aver fomentato disordini e rivolte armate nell’isola, ottenne una forma molto larga di autonomia nella Carta costituzionale.

La situazione mutò quando, dopo il 1948, le sinistre furono escluse dal governo del Paese trovandosi all’opposizione, esse si spostarono su posizioni regionaliste al fine di garantirsi spazi politici praticabili.

È, ormai, del tutto evidente a chicchessia che l’Italia dei venti ‘governatorati’ non è, per nulla, preferibile all’Italia unita soprattutto per quel che riguarda la Sanità che oggi mostra, con mortale crudezza, tutta la sua inadeguatezza ed insufficienza, pur avendo assorbito quasi l’80% delle risorse economiche destinate alle Regioni.

Esse non hanno alcuna ragione storicamente fondata di esistere, sono entità territoriali artificiose perché, come diceva Lucio Gambi, “…le nostre regioni storiche costituzionali sono ripartizioni statistiche riverniciate di nome”.

da “il Manifesto” del 19 novenbre 2020
Di Italian region white.svg: Gigillo83derivative work: Kat888 – Italian region white.svg, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10457837

Il sogno di vedere al lavoro Emergency e le reti sociali calabresi. di Tonino Perna

Il sogno di vedere al lavoro Emergency e le reti sociali calabresi. di Tonino Perna

Un essere invisibile, anzi un non-essere, visto che questo virus a Rna non ha vita autonoma, ha sconvolto economia, società e vita quotidiana di mezzo mondo. Ha abbattuto il muro dell’austerity europea, aprendo una autostrada alla spesa pubblica in disavanzo. Ricordiamoci che ancora a novembre dell’anno scorso il nostro governo discuteva di quale zero virgola si poteva sforare il tetto imposto da Bruxelles.

Sempre lui, mister Covid, ha fatto emergere tutte le contraddizioni del sistema sanitario, non solo in Italia, mettendo a nudo i disastri di un processo di privatizzazione della salute. È difficile oggi, almeno in Europa, contestare il fatto che la salute dei cittadini è un bene comune che deve essere goduto, gratuitamente, da tutti i residenti in un determinato paese.

Il Covid ha fatto saltare le contraddizioni di questo modo di produzione, sia sul piano delle diseguaglianze sociali che territoriali. In Italia, poi, è esploso il conflitto tra Stato e Regioni e la maggioranza dell’opinione pubblica oggi vorrebbe il superamento della disunità d’Italia, provocato dalla Riforma del titolo V della Costituzione che ha dato poteri sproporzionati alle regioni (come ha ben denunciato Massimo Villone su questo giornale).

Infine, in questi mesi di incertezza, confusione istituzionale, panico crescente, gli italiani hanno scoperto che esiste una Regione che non sembra far parte dell’Italia e della Ue. Nell’immaginario prevalente sui mass media si tratta di una terra selvaggia, abitata da criminali senza scrupoli, dove tutto è abbandonato, dalle strutture economiche a quelle sanitarie, fino al dissesto idrogeologico che portò Giustino Fortunato a definirla «sfasciume pendulo sul mare».

Dagli anni ’50 fanalino di coda di tutte le statistiche che riguardano reddito, consumi, occupazione, e ai primissimi posti nella graduatoria mondiale della criminalità organizzata, la Calabria è ormai considerata, anche nella sinistra parlamentare, come una Regione a perdere, dove si possono mandare gli scarti della dirigenza nella pubblica amministrazione. Se in tutta Italia la sanità è stata oggetto di ruberie, malaffare e criminalità organizzata, qui sembra che esista solo questo e non ci siano speranze di cambiamento.

Ma, grazie sempre a mister Covid, sono diventate insostenibili, esplosive, le contraddizioni della gestione politico-amministrativa della sanità in questa Regione. Il governo non può più permettersi di sbagliare ancora una volta mandando commissari alla sanità che sembrano usciti da un circo equestre. I calabresi, ovvero quella minoranza che non si è rassegnata, hanno esultato di gioia alla notizia del premier Conte di inviare Gino Starda, il fondatore di Emergency.

Certo non mancano le voci del campanilismo becero («non abbiamo bisogno di stranieri»). Non sanno di che cosa parlano, o forse lo sanno bene e temono di perdere i benefici che il sistema politico calabrese gli ha da sempre garantito. Val la pena ricordare che Emergency è presente nella piana di Gioia Tauro- Rosarno da più di un decennio, lavorando fianco a fianco con i migranti delle baraccopoli-tendopoli dell’area, privi di protezione sanitaria.

Pochi sanno che Gino Strada e la sua Ong dovunque abbiano operato hanno valorizzato le risorse locali, formato giovani medici e infermieri, reso possibilmente indipendenti dall’aiuto esterno i territori in cui operano. Anche qui in Calabria esiste una società civile organizzata che può dare un importante contributo a Gino Strada e alla sua equipe se decidesse.

C’è un consorzio di oltre settanta associazioni, fondato da Rubens Curia, insieme a Progetto sud (forse la più antica e significativa esperienza meridionale di welfare comunitario) che da anni lotta per ottenere i diritti dei malati, dei diversamente abili, dell’infanzia, ecc. Si tratta di mettere insieme un’esperienza internazionale, come quella di Emergency, con le migliori risorse umane che esistono in Calabria, per ridare a questa terra e ai suoi abitanti la dignità e i diritti che gli spettano. Fateci sognare in tempi di lockdown.

da “il Manifesto” del 17 novembre 2020
foto: Ambulatorio Emergency a Polistena (RC)

La ragionevole follia di mettere fine al regionalismo.- di Guido d’Orsi

La ragionevole follia di mettere fine al regionalismo.- di Guido d’Orsi

Grande è la confusione sotto il cielo d’Italia. Gli organi istituzionali pubblici in forte polemica tra di loro, come e assai più che in primavera, nella prima ondata del virus. Il contagio si diffonde quasi incontrollabile, gli esperti parlano a ruota libera, i tamponi latitano (e si possono fare a pagamento se non vuoi attendere le calende greche), il sistema ospedaliero in crisi, i medici e il personale paramedico chiede soccorso, i ministri a cominciare dal loro coordinatore (il presidente del Consiglio) balbettano, e i sedicenti “governatori” urlano, sgomitano, prima chiedono autonomia decisionale, poi la rigettano sulle spalle del governo – sempre più debole ed esangue, e Conte che ripete “l’obiettivo è arrivare a fine legislatura”.

Il quadro è stato tracciato efficacemente da Francesco Pallante (il manifesto, 8 novembre). Ma davvero si resta basiti davanti allo spettacolo a dir poco inverecondo cui stiamo assistendo, se possibile aggravato dalla sovraesposizione mediatica dei personaggi sulla scena: scienziati, tecnici, amministratori, politici e, immancabile, il corredo dei commentatori professionali da talk show.

Lasciamo stare i casi surreali come quello calabrese, con la doppia nomina di un commissario per la sanità (due personaggi ineffabili, bell’esempio di mancanza di professionalità loro e di totale assenza di serietà del governo); oppure la infame campagna pubblicitaria della Regione Lombardia battezzata con atroce arguzia “The covid dilemma”, che ha lo scopo di scaricare sulla cittadinanza le colossali inefficienze del ceto amministrativo locale e i turpi traffici del presidente Fontana (il manifesto mostra una scritta sovrapposta al volto di una ragazza con la finta domanda: “Indossare la mascherina o indossare il respiratore?”, e la risposta colpevolizzante: “La scelta è tua”); o infine il caso, di cui si sta occupando giustamente la magistratura, della Regione Sardegna, con la riapertura delle discoteche per Ferragosto, e la immediata chiusura finiti i festeggiamenti, ma con lo strascico di contagi procurato.

Al netto di tutto questo, rimane il problema principale che è l’ente Regione. Alla stregua dei fatti, oggi dobbiamo chiederci, seriamente, se l’introduzione della Regione nell’ordinamento della Repubblica non sia stato un errore dei Costituenti. Errore, se tale fu (come ritengo) compiuto in perfetta buona fede, nell’idea che un po’ di decentramento amministrativo sarebbe stata cosa buona e giusta.

E le Regioni, creazioni astratte, prive di un sostrato culturale e di un fondamento storico, si sono rivelate semplicemente centri di distribuzione e distruzione di risorse, senza produrre alcun valore aggiunto alla macchina statale. Ma come ricordava Pallante, i guai sono poi arrivati a valanga, negli ultimi vent’anni, soprattutto gli effetti della manomissione del Titolo V della Carta Costituzionale, e la concessione di poteri enormi all’Ente Regione sulla sanità innanzi tutto, con gli strateghi del cosiddetto Centrosinistra, pronti a gettarsi all’inseguimento della Lega (che allora sbraitava sul “federalismo”) e a sacrificare poteri dello Stato.

Gli effetti eccoli qua. Impotenza dell’ente centrale, contenzioso incessante tra Stato e Regione, inefficienza totale della pubblica amministrazione, crollo del sistema sanitario e crisi di quello scolastico – l’uno e l’altro finora in piedi, benché a mal partito, solo per l’abnegazione del personale – e via seguitando. Allora, perché non prendere il toro per le corna? Lanciamo una campagna per una riforma della Costituzione: stavolta facciamola noi, dal basso, non aspettiamo che arrivino i guastatori, i Renzi, e i Salvini e compagnia cantante: perseguiamo due obiettivi.

Obiettivo minimo cancellazione delle modifiche al Titolo V del 2001, con recupero allo Stato di funzioni delegate alle Regioni; e se vogliamo esagerare diamoci come obiettivo massimo l’eliminazione dell’Ente Regione, e invece, piuttosto, rivitializziamo le Province, che d’altronde, nella storia d’Italia hanno un’antica e nobile tradizione, a differenza delle Regioni. E hanno una dimensione che effettivamente può avvicinare l’istituzione alla cittadinanza. Restituiamo loro competenze e prerogative, con juicio, naturalmente. Per porre fine al cosiddetto “regionalismo”, alla destrutturazione della Repubblica, alla distruzione della stessa unità nazionale.
Vogliamo tentare questa ragionevole follia?

da “il Manifesto” del 13 novembre 2020

Italia divisa in due. -di Gianfranco Viesti Il diritto alla salute così diverso nel Paese

Italia divisa in due. -di Gianfranco Viesti Il diritto alla salute così diverso nel Paese

Le tre regioni (Calabria, Puglia, Sicilia) in cui il rapporto fra casi attualmente positivi e popolazione è il più basso d’Italia (monitoraggio Gimbe, al 6 novembre) sono classificate fra le zone “rosse” e “arancioni”. L’apparente contraddizione si comprende guardando ai famosi 21 indicatori elaborati dall’Istituto Superiore di Sanità: la classificazione dipende da un insieme di variabili, dalla velocità di trasmissione alla capacità di monitoraggio, e di accertamento diagnostico, indagine e gestione dei contatti.

Ma dipende anche da un elemento fondamentale: la disponibilità di personale e di posti letto. In queste regioni la dimensione del sistema sanitario è nettamente inferiore rispetto al resto del Paese: è questo che contribuisce a determinare le indispensabili misure più restrittive, ma quindi anche a colpire maggiormente le attività economiche. I ristoranti chiudono anche perché gli infermieri e i posti letto sono troppo pochi.

Perché è così? Questa realtà dipende dalla lunga e complessa storia della sanità italiana: e dalle insufficienze e distorsioni del suo governo in alcune regioni, principalmente del Sud; se si vuole difendere il diritto alla salute dei cittadini, non bisogna mai smettere di ricordare le inefficienze delle loro amministrazioni.
Ma dipende anche da oltre un decennio di politiche sanitarie, ed in particolare dai piani di rientro.

E’ utile comparare l’insieme delle regioni soggette a piani di rientro, includendo dunque anche Lazio, Abruzzo, Molise e Campania, con le altre; in tempi di polemiche sui dati, ci si può far guidare da un recente rapporto dell’autorevolissimo Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb). Che ci dice l’Upb? Che nelle regioni in piano di rientro al 2017 c’erano 81 dipendenti del sistema sanitario ogni diecimila abitanti contro 119 in quelle senza piano; in particolare c’erano 35 infermieri contro 49, in un quadro italiano in cui il rapporto fra infermieri e popolazione è solo i due terzi della media europea.

E questo senza considerare le regioni a statuto speciale e le province autonome (nel caso della sanità, la Sicilia non rientra in questo gruppo): un vero mondo a parte, nel quale i dipendenti del servizio sanitario sono quasi il doppio, per abitante, rispetto alle regioni in piani di rientro. Le regioni del Centro-Sud affrontano la pandemia con un numero di posti letto, rispetto alla popolazione, significativamente inferiore rispetto a quelle del Nord; inferiore un terzo rispetto al Trentino Alto-Adige.

Questa situazione è frutto delle scelte di più di un decennio: dal 2008 al 2017 il personale nelle regioni in piano di rientro è diminuito del 16%; è sceso del 2% in quelle senza piano di rientro; è aumentato in quelle autonome. Queste tendenze sono state dovute, appunto, alle regole imposte alle regioni che avevano un forte disavanzo sanitario: spendevano più del finanziamento loro assegnato. Necessario intervenire, in tempi difficili per la finanza pubblica: ma il disavanzo si è praticamente azzerato già nel 2014 e le politiche non sono cambiate.

E le condizioni si sono sempre più divaricate, come ben mostrato in un recentissimo studio di Baraldo, Collaro e Marino pubblicato su lavoce.info. Dettaglio interessante, l’Upb mostra che le regioni e le province autonome avevano un disavanzo “virtuale” (il meccanismo di finanziamento è diverso) di pari dimensione e lo hanno ancora oggi: ma sono un mondo a parte; un mondo di privilegi.

Il disavanzo era dovuto a problemi sensibili nell’organizzazione sanitaria, ma anche ai meccanismi di finanziamento. Il tema è complesso, ma riassumibile in una considerazione: le regole del federalismo fiscale si applicano solo quando convengono ai più forti. Tre esempi.

Il riparto del Fondo Sanitario Nazionale non è legato ad una attenta misura dei “fabbisogni” della popolazione, ma è guidato solo dalla dimensione demografica, in parte “pesata” per l’anzianità: così che la spesa per abitante è in Calabria del 18% inferiore a quella emiliana; del 15% in Campania, del 13% nel Lazio; i dati (Istat) sono del 2018, ma questo accade tutti gli anni. E’ sempre indispensabile ricordarlo (ancora ieri in un’intervista il Presidente della Regione Veneto sosteneva «che è un problema di efficienza e responsabilità non di soldi»).

In secondo luogo, nessuno ha mai provveduto ad una misurazione delle dotazioni strutturali (ospedali, macchinari) delle regioni: eppure esse dovrebbero essere “perequate”, dato che è impossibile avere gli stessi servizi con dotazioni molto dispari. Stime di un istituto specializzato (il Cerm) mostravano al 2010 impressionanti divari; ma la spesa per investimenti pubblici in sanità invece di contribuire a ridurli li ha accresciuti: fra il 2000 e il 2017 gli investimenti nella sanità sono stati pari ogni anno a 22 euro per abitante in Campania e nel Lazio, a 84 in Emilia; a 16 euro per abitante in Calabria contro 184 a Bolzano.

Infine, la necessità di tanti pazienti di spostarsi fra regioni, specie per cure che richiedono dotazioni e specializzazioni avanzate (e che vengono pagate dalle Regioni di provenienza, che così hanno ancora meno risorse), è ormai considerato come un dato fisiologico del sistema, e non come una grave discriminazione da correggere.

Tutti gli italiani dovrebbero avere un eguale diritto alla salute. Sia per motivi di equità, sia per il benessere collettivo. Esso non dovrebbe dipendere né da incapacità politiche regionali (nei confronti delle quali il governo nazionale dovrebbe attivare con incisività ben maggiore i suoi poteri sostitutivi), né dalle regole distorte e incomplete del federalismo fiscale italiano.

E non è un problema locale: la diffusione della pandemia ci ha mostrato in tutta evidenza che la salute è un tema nazionale (europeo), che non conosce confini amministrativi: la disastrosa situazione della sanità calabrese non è solo un problema per gli abitanti di quella regione ma per tutti noi.

E dunque, se davvero vogliamo che l’Italia dopo il covid sia meglio di quella che abbiamo alle spalle, la conclusione è molto semplice: si impongono scelte politiche molto diverse. Il Piano di rilancio e le politiche sanitarie dei prossimi anni non possono che mirare a sanare ingiustizie e squilibri, anche superando incapacità e resistenze degli amministratori regionali.

da “il Messaggero” dell’11 novembre 2020

Nord-Sud, economisti contro, sui conti (e i soldi) che non tornano. di Massimo Villone

Nord-Sud, economisti contro, sui conti (e i soldi) che non tornano. di Massimo Villone

Da Repubblica del 9 novembre Oscar Giannino ci informa, con un articolo dal titolo «I colpi della pandemia riapriranno le ferite del divario nord-sud», sugli esiti inevitabili della crisi. Il calo del Pil ridurrà le risorse prodotte dal Nord e devolvibili alla perequazione territoriale. Cita di passaggio il recente libro di Giovanardi e Stevanato Autonomia, differenziazione è responsabilità, in cui si legge che il trasferimento di risorse pubbliche al Sud è stato negli anni massiccio, e totalmente fallimentare.

Su una linea analoga si erano espressi il 2 ottobre Galli e Gottardo, autorevoli economisti della Cattolica, con un saggio sull’Osservatorio dei conti pubblici italiani. E già il 4 maggio 2019 Tabellini, ex rettore della Bocconi, in un articolo sul Foglio scriveva : «Le politiche più efficaci per avvicinare l’Italia all’Europa sono anche quelle che aumentano la distanza tra Milano e Napoli». In tutte queste prospettazioni il tentativo di ridurre il divario Nord-Sud, comportando uno spreco di risorse, reca al paese danno, e non vantaggio. Ne segue il corollario, esplicitato o meno, che è nell’interesse del paese concentrare le risorse disponibili sulla locomotiva del Nord. Meglio per tutti se il divario rimane.

Si rafforza e si manifesta lo schieramento che nega ad un tempo lo scippo di risorse a danno del Sud da parte del Nord, e la riduzione del divario tra le due Italie. È una cannonata contro l’opposta tesi che l’Italia non esce dalla crisi se non rilanciando il Sud come secondo motore produttivo del paese: solo così può essere fermato e invertito il declino che ha devastato il Sud ma ha colpito – sia pure in misura assai minore – anche il Nord. Tesi sostenuta dalla Svimez e da autorevoli economisti, e soprattutto, almeno prima facie, accettata dal governo nelle sue scelte di politica economica e negli orientamenti nella utilizzazione dei fondi Recovery, anche in osservanza delle indicazioni UE.

Le due narrazioni contrapposte trovano aggancio in due serie di dati divergenti, entrambe di matrice pubblica: una, dei Conti pubblici territoriali dell’Agenzia per la coesione, per cui ai cittadini del Nord sono assegnate risorse pubbliche pro capite in misura maggiore che ai cittadini del Sud; l’altra, di provenienza Istat e Bankitalia e ora adottata da Galli e Gottardo e dall’Ocpi, che dice l’esatto contrario. Se fosse una contrapposizione accademica, potremmo non occuparcene. Ma sono ovvie le implicazioni per le scelte di politica economica e gli indirizzi di governo, inclusa la risposta alla crisi Covid.

Il 9 novembre, in un seminario presso la Fondazione Astrid su «Il ruolo del Mezzogiorno per la ripresa», il ministro Provenzano ha dato un’ampia informazione delle iniziative del governo. Nessuno dubita del personale e forte impegno del ministro a favore del Mezzogiorno. Ma può la sua posizione decisivamente orientare le politiche del governo nel suo complesso? Qualche domanda si pone.

Delle due serie di dati contrapposti prima richiamate, quale è adottata da Palazzo Chigi ai fini delle scelte e degli indirizzi di governo? Il ministro Provenzano assume quella dei Conti pubblici territoriali. Ma non sembra, ad esempio, di poter dire lo stesso per il ministro Boccia. Come conciliare con l’obiettivo di ridurre il divario Nord-Sud la sua debole proposta di legge-quadro sull’autonomia differenziata, che vuole collegare al bilancio pur essendo tecnicamente inidonea a frenare le pulsioni separatiste? Andrebbe tolta dal tavolo.

Come scommettere sui Lep (livelli essenziali delle prestazioni) come elemento decisivo di equità territoriale, dopo il fallimento del loro equivalente sanitario (Lea) e la conseguente frantumazione del servizio sanitario nazionale? Come assumere le conferenze e la concertazione tra esecutivi come luogo e metodo di un nuovo regionalismo – come suggerisce in audizione presso la Commissione bicamerale per le questioni regionali il 30 settembre – quando l’esperienza passata ne dimostra gli effetti negativi sulla coesione territoriale, e la crisi Covid oggi ne conferma in termini anche più generali le pesanti conseguenze?

Avremo un ritorno della questione meridionale o di quella settentrionale? Lo vedremo sul palcoscenico del dopo Covid, dove si recita a soggetto. Il che può anche andar bene, a meno che gli attori non mostrino di essere – magari con eccezioni lodevoli – guitti di secondo ordine.

da “il Manifesto” dell’11 novembre 2020