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Italia-Albania: una lunga storia che passa per la Calabria.-di Tonino Perna

Italia-Albania: una lunga storia che passa per la Calabria.-di Tonino Perna

Il recente accordo tra il governo italiano e albanese, per la gestione di una quota di immigrati che arrivano sulle coste italiane, sta suscitando molte polemiche sia in Albania che in Italia perché i rispettivi parlamenti non sono stati coinvolti. Da parte italiana è nota l’incapacità di gestire i flussi migratori malgrado ci sia una crescente domanda di lavoro insoddisfatta: secondo Confindustria mancano all’appello circa 300mila posti di lavoro che si vanno a sommare alla carenza di manodopera stagionale in agricoltura e nel turismo.

Basterebbe organizzare veri corsi di formazione, in accordo con le aziende, per trasformare quello che viene sbandierata come una “emergenza” in una opportunità per il nostro paese, che fa registrare da anni un pesante e crescente deficit demografico. Sull’altra sponda, il presidente Rama ha accettato questo accordo con la nostra premier motivandola, in primo luogo, come riconoscenza all’Italia che ha accolto negli anni ’90 gli albanesi che fuggivano dalla miseria (91-96) e dalla guerra civile (1997).

Per la verità sulla qualità di questa accoglienza ci sarebbe qualche dubbio. Val la pena ricordare che gli “invasori”, così furono definiti nell’estate del ’91, furono stipati nello stadio del Bari come fossero prigionieri politici. Ma, soprattutto, il Venerdì Santo del 1997, esattamente il 28 marzo, in piena guerra civile, che causò la morte di oltre mila albanesi, il governo italiano decretò il blocco navale con conseguenze tragiche: la nave Kader y Radesh , carica di donne e bambini, fu affondata dalla corvetta Sibilla della Marina militare italiana causando più di cento morti.

Che il presidente Rama parli di riconoscenza per giustificare l’accordo con il governo italiano per trasferire sul territorio albanese 36.000 immigrati l’anno, suona un po’ strano. Non solo per quanto sopradetto, ma anche perché si può parlare di reciprocità se l’Albania accogliesse dei profughi italiani e non i flussi migratori che provengono da altri paesi. La reciprocità, la vera riconoscenza, tra una parte d’Italia e l’Albania si è verificata nel XV secolo e ha lasciato segni visibili e duraturi, come dimostra il legame che esiste ancora oggi tra gli albanesi di Calabria, detti arbereshe, e il Paese delle Aquile.

Quando l’impero ottomano invase l’Illiria, come si chiamava un tempo, gli albanesi che riuscirono ad attraversare l’Adriatico con mezzi di fortuna, sbarcarono sulle coste pugliesi e furono accolti, in migliaia, dal Re di Napoli, Alfonso V di Aragona, per l’appoggio militare ricevuto da Scanderberg, quando era stato in difficoltà, sia per la rivolta dei baroni, sia perché attaccato dai turchi sulle coste pugliesi.

Come mi ha spiegato un caro amico albanese, Ilir Ghedeshi, direttore di un Centro di Ricerche Economiche e Sociali, la vera posta in gioco che ha determinato la firma dell’accordo è l’entrata dell’Albania in Europa. Il Presidente Rama ha bisogno dell’appoggio italiano per vincere la resistenza del governo greco che da sempre osteggia questa opportunità che è molto cara agli albanesi. Non si capisce, infatti, perché siano entrati altri paesi dell’est europeo che in passato erano in condizioni economiche e giuridiche messe peggio dell’Albania.

Un paese che ha mantenuto una stabilità monetaria anche quando altre valute fuori dall’euro crollavano, un paese dove vivono circa ventimila italiani , centinaia di imprenditori, che ha una forte integrazione economica con l’Italia nel settore dell’abbigliamento e delle calzature, che ha fatto registrare negli ultimi anni un vero e proprio boom turistico. Insomma, non si capisce perché Bruxelles rimandi continuamente la data dell’entrata dell’Albania nella Ue. Adesso sembra che anche il 2030, che era stato fissato per ufficializzare questo passaggio, possa saltare.

Al di là di questo poco presentabile accordo, l’impegno italiano per l’entrata dell’Albania nella Ue è un atto dovuto. Lo chiedono i 242.000 cittadini albanesi che hanno ottenuto la cittadinanza italiana, gli altri centocinquantamila regolarmente soggiornanti nel nostro paese, brillantemente inseriti nel nostro tessuto economico, sociale e culturale. E, a mio modesto avviso, dovrebbe chiederlo anche la Regione Calabria per i forti legami che ha con questo popolo, come testimonia fra l’altro la recente visita in Calabria del presidente albanese Bajram Begaj e il suo caloroso incontro con il presidente Occhiuto. La Regione non ha questi poteri ma una iniziativa in tal senso avrebbe un valore simbolico e politico da non sottovalutare.

L’integrazione europea dell’Albania è già avvenuta attraverso il nostro paese, si tratta di avere un po’ di coraggio e diplomazia per convincere il governo greco a togliere il veto, legato a storiche, e superabili, rivendicazioni territoriali.

da “il Quotidiano del Sud” del 12 novembre 2023

Adesso è ora di dire basta con l’emergenza.-di Tonino Perna

Adesso è ora di dire basta con l’emergenza.-di Tonino Perna

Dopo un lungo periodo di siccità che ha colpito questo inverno il Nord Italia ecco arrivare bombe d’acqua, piogge intense che hanno provocato l’alluvione di una parte importante del territorio romagnolo con vittime e danni materiali ingenti. Ancora una volta, come da copione, la Regione Emilia Romagna chiederà lo stato di emergenza e inizierà la trattativa col governo per ottenere più risorse finanziarie possibili. Dopo aver seppellito le vittime di questa alluvione, aver sentito i soliti discorsi dai ministri di turno, tutto riprenderà come prima.

Ci domandiamo: si poteva prevedere questo ciclone che ha colpito così durante il territorio emiliano-romagnolo? No, con un sufficiente anticipo. Gli eventi estremi, come cicloni, tifoni, trombe d’aria, bombe d’acqua, tormente di neve o di vento, sono prevedibili, rispetto all’impatto di un determinato territorio, solo 24-48 ore prima che il fenomeno si verifichi. E mai con esattezza assoluta. Ecco perché alcune volte, come tutti abbiamo riscontrato, viene dichiarato, in una determinata città, l’allarme meteo arancione o rosso, chiuse le scuole, e poi l’evento si verifica magari a venti-trenta chilometri di distanza, o all’ultimo momento non si verifica proprio per un improvviso cambiamento della direzione dei venti.

Ma se non è prevedibile esattamente il giorno e l’ora in cui un determinato territorio verrà colpito da questi fenomeni è ormai noto che gli «eventi estremi» sono sempre più intensi e sempre più frequenti. E non abbiamo visto ancora niente. Saremo sempre più esposti di fronte a questi fenomeni traumatici che abbiamo provocato immettendo, in poco tempo, una quantità enorme di anidride carbonica che ha fatto saltare l’equilibrio atmosferico, secondo quanto sostenne il Nobel Prigogine per i gas in un sistema chiuso, quando solo un elemento cresce in maniera esponenziale, generando le cosiddette «fluttuazioni giganti». In altri termini siamo entrati in una fase caotica del meteo di cui dovremmo prendere coscienza e pensare ai rimedi possibili.

Ci sono per altro dei dati che parlano chiaro. Come per i territori a rischio sismico, così per le alluvioni abbiamo dei territori più esposti ed altri meno. I dati dell’Ispra sono eloquenti: l’Emilia Romagna è la regione con la percentuale più alta di territorio a rischio alluvioni, con la più alta percentuale di abitanti e di immobili ad alto rischio di essere travolti dalle alluvioni. Non si può dire che la Regione Emilia-Romagna non abbia fatto niente per curare questo territorio e prevenire le esondazioni, ma la normale amministrazione non basta più nell’era degli eventi estremi.

Occorre ripensare le città, i trasporti, la messa in sicurezza dei fiumi, la canalizzazione delle acque, approfittare dei periodi di siccità per allargare gli alvei e rafforzare gli argini, così come occorre munirsi di riserve d’acqua per i lunghi periodi di siccità. Insomma, si tratta di uscire dalla gestione ordinaria per sottoporre i territori ai cosiddetti “stress test”, ovvero a simulare l’impatto di eventi estremi per verificare la resilienza di una determinata zona, città o campagna. E questo vale per tutti, nessuno si può chiamare fuori.

Se invece continuiamo ad invocare, di volta in volta, l’emergenza, a non prendere atto che dobbiamo fare i conti con un cambiamento strutturale, ne usciremo con un territorio devastato. Tutto è diventato Emergenza. Un incremento dei flussi migratori è un’emergenza, la siccità prolungata è un’emergenza, la pioggia intensa è sempre un’emergenza, come la mancanza di case per gli studenti o la disoccupazione giovanile. Tra poco arriverà la stagione degli incendi e riempiranno le prime pagine dei giornali e saremo ancora una volta impreparati. Basta con queste emergenze inventate di fronte a fenomeni strutturali. La vera emergenza è questo governo che dovrebbe preoccuparci ed allarmarci seriamente.

da “il Manifesto” del 19 maggio 2023
Foto di Rafael Urdaneta Rojas da Pixabay

Il Pnrr per le armi. Verso la transizione bellica.-di Tonino Perna

Il Pnrr per le armi. Verso la transizione bellica.-di Tonino Perna

La decisione della Commissione Ue di utilizzare una parte dei fondi del Pnrr per finanziare l’industria bellica, per aumentare lo stock di munizioni, va preso seriamente in considerazione. Thierry Breton, commissario europeo per il mercato interno, così la giustifica: « Il Recovery Fund è stato specificatamente costruito per tre principali azioni: la transizione verde, la transizione digitale e la resilienza. Intervenire puntualmente per sostenere progetti industriali che vanno verso la resilienza, compresa la difesa, fa parte di questo terzo pilastro».

È interessante notare che la resilienza, categoria utilizzata finora prevalentemente nel mondo ecologista, ha significato la capacità degli individui di far fronte alle avversità riuscendone rafforzati. In particolare, nel Pnrr aveva finora un approccio che andava nella direzione di mitigazione degli «eventi estremi» con investimenti, dall’agricoltura all’urbanistica, che dovevano fare i conti con il mutamento climatico in atto. Si diceva e si scriveva che bisognava ripensare all’uso dell’acqua dato che dobbiamo fare i conti con lunghi periodi di siccità, così come ridisegnare le città con una maggiore presenza di verde per ridurre le emissioni di CO2. Grazie al commissario Breton apprendiamo che c’è una nuova accezione: la difesa militare fa parte della resilienza in quanto la guerra è diventato un evento naturale e permanente da cui bisogna difendersi.

La scelta di indirizzare gli investimenti in questa direzione non viene data come fatto eccezionale ma come risposta «resiliente» ad un mondo che ci minaccia.

Questa scelta di politica economica rende chiaro a tutti verso quale modello di sviluppo ci stiamo incamminando. La mitica crescita economica si basa sempre più sulla produzione di merci a «valore d’uso negativo» per l’uomo e per l’ambiente.

Se facessimo una contabilità qualitativa del Pil scopriremmo che una parte crescente di quella che chiamiamo ricchezza nazionale è legata alla produzione di merci che hanno un impatto negativo sull’ecosistema, sulla salute e benessere delle persone, sulla nostra vita quotidiana. Tutto questo è occultato dentro una bolla di falsificazione della realtà dove prevalgono in maniera ossessiva termini quali «sostenibilità» e «green». È bastata la chiusura dei rifornimenti di gas dalla Russia per fare riaprire centrali a carbone, riprendere le trivellazioni in Europa e nel Sud del mondo, a partire dai Paesi africani, costruire i nuovi rigassificatori, e infine accelerare la corsa agli armamenti, una delle prime cause del disastro ambientale. Insomma, dalla tanto sbandierata «transizione green» stiamo passando velocemente alla «transizione bellica» senza trovare una opposizione significativa. I sindacati dei lavoratori sono sempre più soggetti al ricatto dell’occupazione, per cui hanno scarsa capacità di mettere in discussione cosa produrre, per chi e come.

L’ideologia della crescita infinita, fine a sé stessa, ha impedito a quello che rimane della sinistra europea di analizzare criticamente la qualità di questa crescita monetaria, per giunta drogata da una nuova corsa all’indebitamento.
L’Ue si è ormai completamente adeguata all’american way of war come un dato strutturale e permanente del capitalismo a stelle e strisce.

Siamo entrati ormai a pieno titolo in quello che James ‘O Connor definiva “warfare state” nel famoso saggio “The Fiscal Crisis of the State”, edito a New York esattamente cinquanta anni fa. Ovvero in una Economia di guerra ( War Economy) come la definì Seymour Melman nel 1970, invitandoci a prendere atto che si stava formando un nuovo gruppo dominante, una nuova borghesia definita dai suoi rapporti con i mezzi di distruzione più che dei suoi rapporti con i mezzi di produzione, una borghesia criminale che oggi diventa prevalente.

La questione della guerra e della pace non è una delle tante contraddizioni di questa nostra società, ma rappresenta la linea di demarcazione tra socialismo e barbarie, tra la catastrofe globale e la possibilità di dare un futuro alle prossime generazioni: la Next Generation Eu, da cui ora invece vengono presi i fondi per finanziare l’industria bellica.

da “il Manifesto” del 5 maggio 2023
Foto di Brett Hondow da Pixabay

L’implosione del Mediterraneo-di Tonino Perna

L’implosione del Mediterraneo-di Tonino Perna

C’era una volta il Mediterraneo, culla di grandi civiltà, delle tre religioni monoteiste, centro dell’attività economica e commerciale del mondo conosciuto, dal tempo dei fenici-greci-romani-arabi fino alla fine del XV secolo. Poi, con la conquista dell’America, si spostano progressivamente i flussi commerciali dal Mediterraneo all’Atlantico, e dal continente americano arrivano oro e argento che costituivano allora la base reale della ricchezza di un paese, e si riduce progressivamente il ruolo del Mediterraneo, ma non scompare.

Ancora negli anni ’60 del secolo scorso i paesi che si affacciano nel bacino del Mediterraneo facevano parte dei paesi a reddito medio-basso, nella sponda sud-est, e a reddito medio alto nella sponda nord. Dopo la caduta del muro di Berlino e l’apertura cinese al mercato globale, l’asse del commercio e della finanza europea si sposta nuovamente verso i paesi dell’ex Urss e verso la Cina, all’interno di una rivoluzione geopolitica ed economica che vede l’asse centrale dell’economia mondo localizzarsi in Asia. Un cambiamento epocale paragonabile solo a quello avvenuto con la conquista delle Americhe. Solo che allora ci vollero secoli per consolidare questo cambio di rotta del mercato mondiale, oggi sono bastati pochi decenni.

Il progressivo impoverimento delle popolazioni della sponda sud-est del Mediterraneo è avvenuto già negli anni ’70 del secolo scorso, con una divaricazione crescente tra la sponda Nord e Sud-es. L’Ue, nata nel cuore del Mediterraneo con il Trattato di Roma del 1957, e due anni prima con la Carta di Messina, ha lasciato da tempo il mare nostrum come area di interesse economico e politico, abbandonando nell’emarginazione e crescente povertà le popolazioni nordafricane ed arabe. Fino alla “primavera araba” media e governi occidentali avevano ignorato l’impoverimento di queste popolazioni. Improvvisamente nel 2010 si accendono i fari su masse giovanili in piazza per chiedere più libertà e giustizia sociale, contro le rapaci élite, militari e civili, che divorano le ricchezze unitamente ai rapporti di scambio ineguali con i paesi occidentali.

Sappiamo come è andata a finire anche grazie all’ingerenza di potenze straniere comprese quelle europee. Libia e Siria, paesi relativamente ricchi e dove milioni di migranti del Sahel lavoravano, sono implose e vivono tuttora in uno stato di guerra permanente. Il Libano, la famosa Svizzera del Mediterraneo, è stato ridotto alla fame e il milione e mezzo di siriani che aveva ospitato sono oggi invisi e perseguitati. La Palestina è stata fatta a brandelli, ridotta ad un bantustan, dalla crescente tracotanza del governo israeliano che a sua volta attraversa una crisi democratica inedita. E adesso è arrivato il turno della Tunisia, l’unico paese a mantenere aperta una piccola luce sulla “primavera araba”, ormai entrato in una spirale autodistruttiva. E’ l’ennesimo paese dell’area mediterranea che implode

L’Unione europea si preoccupa dei suoi vicini di casa caduti nell’inferno? Pensa a sostenere economicamente e finanziariamente questi paesi, o pensa piuttosto a investire, come ha fatto con la Turchia, solo per creare un grande lager? Il governo Meloni vede nell’implosione della Tunisia un pericolo per l’Italia, con i principali mass media che ormai hanno lanciato l’allarme: l’invasione di milioni di migranti è alla porte di casa nostra!

Dopo il meeting di Barcellona del 1995, che pure aveva i suoi limiti neoliberisti, il Mediterraneo è scomparso dall’agenda europea, lasciando campo libero agli Usa, alla Russia, alla Cina e all’emergente politica espansionistica della Turchia del sultano Erdogan. In Italia, dopo decenni di convegni sul Mediterraneo, di evocazioni retoriche sull’Italia e la Sicilia centro e cuore pulsante di questo mare, abbiamo ricoperto l’importanza di alcuni di questi paesi solo adesso come fornitori di gas e petrolio. E questo, naturalmente, in linea con la transizione ecologica in salsa napoletana.

da “il Manifesto” del 14 aprile 2023

Il Ponte non è una protesi.-di Tonino Perna

Il Ponte non è una protesi.-di Tonino Perna

Ci risiamo, anche se è solo il primo passo di una insulsa propaganda di regime come presto verrà a galla. Durante il ventennio le opere di regime sono state tante, c’è stata la ricostruzione, in stile liberty, delle città di Reggio e Messina, completamente distrutte dal terremoto del 1908 con la morte di 100.000 abitanti dell’area dello Stretto. Ma questi odierni epigoni sono talmente incapaci da aver scommesso su un’opera impossibile da realizzare, dove, purtroppo, si butteranno miliardi e dove, se non ci sarà come è probabile, una forte resistenza del territorio interessato, si creeranno danni ambientali irreversibili.

Procediamo con ordine. Quello che è stato approvato dal Consiglio dei Ministri è il finanziamento di un progetto esecutivo del Ponte a campata unica sullo Stretto. Intanto, ci avevano raccontato per anni che c’era già il progetto e bisognava solo finanziare l’opera. Adesso ci vorranno circa due anni per arrivare all’approvazione del progetto esecutivo, e poi almeno un altro anno e mezzo per il progetto definitivo. Poi bisognerà trovare le risorse finanziare.

Ammettiamo anche che questi passaggi avvengano nei tempi previsti e che si trovino i capitali necessari nelle casse dello Stato (visto che nessun privato finora si è dimostrato disponibile), bisognerà passare agli espropri di terreni privati con inevitabili contenziosi giudiziari. Salvo emanare una legge ad hoc che affretti le procedure di esproprio in forma autoritaria, in questa fase si può fermare tutto per anni ed anni.

Seppure tutto dovesse procedere nel migliore dei modi, il Ponte sullo Stretto non potrà essere terminato prima di dieci anni. Per altro, per avviare i lavori bisognerà inventarsi una tecnologia che permetta al Ponte di sopravvivere in un’area ad alta intensità sismica (l’ultima scossa di 4,5 ° si è registrata la settimana scorsa in Aspromonte, la grande montagna che arriva ad abbracciare lo Stretto sul lato calabrese). E poi dato l’irreversibile distanziamento delle due sponde, registrato dai satelliti, pari ad 1cm ogni cinque anni, bisogna augurarsi che il Ponte una volta costruito possa arrivare almeno a mezzo secolo di vita.

Quando, superando mille ostacoli e allarmi degli scienziati, questo Ponte dovesse veramente essere costruito, resterebbe sullo Stretto come una protesi dentaria in una bocca sdentata. Il problema è che finora non è stato fatto nessuno studio serio, né una valutazione di impatto ambientale, né una stima dei costi per collegare il Ponte alla ferrovia e all’autostrada, da una parte e dall’altra dello Stretto. Che senso ha pensare di costruire un megaponte, a campata unica la più lunga del mondo, come sostengono orgogliosamente, senza porsi il problema del collegamento con la ferrovia e le autostrade lontane decine di chilometri dai tralicci del Ponte?

Finora l’opposizione a quest’opera di regime è stata portata avanti, oltre che dai movimenti ambientalisti, dal M5S, dai Verdi, da Unione Popolare e una minoranza Pd. I temi dell’opposizione sono concreti, ma deboli sul piano della comunicazione. Si dice e si scrive “bisogna completare prima la SS106, l’alta velocità ferroviaria, l’elettrificazione in Sicilia e sulla jonica calabrese dei collegamenti ferroviari, i depuratori, le strade di collegamento delle zone interne, il gravissimo dissesto idrogeologico, ecc. Sono tutte obiezioni giuste se si trattasse di una disputa accademica, ma si tratta di opporsi ad una scelta ideologica, che vogliono realizzare a tutti i costi anche lasciando per l’eternità i tralicci del Ponte che guardano le stelle.

La Destra risponde facilmente a queste critiche dicendo che proprio grazie alla costruzione del Ponte si faranno le altre opere accessorie. E, quel che è grave, stanno convincendo una parte rilevante dell’opinione pubblica nell’area dello Stretto.

Viceversa, se si spiegasse alla popolazione che non c’è nessun progetto per collegare il Ponte, che se venisse programmato un collegamento si dovrebbero fare colate di cemento sulle città che si affacciano su questo specchio d’acqua dove vive la Fata Morgana, dove chi arriva per la prima volta rimane incantato dallo spettacolo di Scilla e Cariddi, dalla vista contemporanea dell’Etna e delle isole Eolie, di Messina e Reggio, dei Peloritani e dell’Aspromonte. Chi può pensare di distruggere con decine di viadotti e gallerie questa meraviglia della Natura e parlare di transizione ecologica?

Se questo Ponte è green, come dice il ministro allora sarà costruito con cemento di cartapesta riciclata, perché diversamente, con cemento armato e collegato alle infrastrutture esistenti, richiederebbe tanto calcestruzzo e ferro, quanto ce ne vorrebbe per costruire ex novo una città di 700 mila abitanti, secondo una stima prudente. Senza considerare che ci troviamo di fronte ad aree ad altissimo valore naturalistico che verrebbero sfigurate dall’insana voglia di gloria di una brutta compagnia di ventura.

Ci si può chiedere il perché di tanto accanimento su quest’opera folle e devastante oltre che in gran parte irrealizzabile. La risposta è nel distretto degli acciai speciali di Brescia, nel business delle grandi imprese italiane delle costruzioni, a partire dalla Webuild S.p. A., già Salini-Impregilio, nelle macchine di movimento terra, ecc. Una domanda aggiuntiva per alcuni settori industriali del Nord Italia dove la Lega ha una buona parte del suo elettorato. Investire al Sud per creare domanda aggiuntiva al Nord, e se questo significa distruggere un ecosistema l’importante è usare la parola magica “un Ponte sostenibile!”

da “il Manifesto” del 18 marzo 2023

Aiutiamoli a morire a casa loro.-di Tonino Perna

Aiutiamoli a morire a casa loro.-di Tonino Perna

L’ennesima tragedia dei migranti che muoiono davanti alle nostre coste, che potevano tranquillamente essere salvati prima, ha provocato una reazione unanime nel governo italiano che è stato ben espresso dalla premier addoloratissima per questo ennesimo naufragio: “Basta. Dobbiamo impedire le partenze”. Le ha fatto da megafono il ministro Piantedosi: “Non dovevano partire”.

Giusto, logico e pragmatico, non fa una grinza. Se nessuno parte su un barcone, gommone o altro mezzo, nessuno muore. Per questa intuizione dovrebbe essere conferito alla presidente del Consiglio, unitamente al suo Ministro degli Interni, uno speciale premio Nobel per pace, magari con una piccola specificazione: “per la pace eterna”.

Cosa significa “dobbiamo bloccare le partenze”? Significa che milioni di profughi che fuggono dalle guerre, dalla fame, dalla miseria, dalla siccità, dalle inondazioni, devono restare a morire nella propria terra. Ma, stia tranquilla, signora presidente del Consiglio: il 94% dei rifugiati, dei cosiddetti “diplaced people” si spostano all’interno dei loro paesi o in paesi confinanti, come il Niger, il Congo, il Sud Sudan, ecc. Solo il 6% emigra verso altri continenti, non necessariamente in Europa. Quelli che s’imbarcano per raggiungere le coste del Sud Europa sono quelli che non hanno più niente da perdere.

Sono una piccola parte del’1,3 milioni di siriani rimasti intrappolati in Libano in una spaventosa crisi economica che ha generato una forte pressione per rimandarli in Siria dove li attende a braccia aperte Bashar Assad, per dargli l’estrema unzione. Sono i curdi bombardati quotidianamente dal grande mediatore pacifista, il presidente Erdogan, che ricatta persino la Nato per poter giustiziare quei leader curdi che sono rifugiati politici nei paesi scandinavi. Sono tunisini che fuggono dalla miseria che dilaga in questo paese dove le grandi speranza accese dalla Primavera araba stanno definitivamente tramontando. Chi sale, pagando, su un barcone sovraffollato per venire in Italia, sa perfettamente che rischia la vita, ma non ha alternative, non ha una prospettiva diversa, una piccola fiammella di speranza.

Bene. Volete farli morire a casa loro in modo da poter dire “abbiamo salvato tante vite umane da quando abbiamo impedito le partenze verso l’Europa” ? Avete ragione: occhio non vede cuore non duole. Infatti, quanti europei o nordamericani sanno che gli ultimi 20 paesi del mondo per reddito pro-capite, aspettativa di vita, livello di istruzione, ecc. , i cosiddetti Last Twenty, sono per oltre i 2/3 paesi attraversati da guerre e conflitti. Guerre alimentate dalle nostre industrie delle armi, fomentate da chi vuole prendersi le risorse di questi paesi, guerre dimenticate che producono fame, devastazione ambientale e migrazioni di massa. Non è la mancanza di investimenti, di risparmio, di know how, di tecnologia, che hanno provocato l’impoverimento di questi paesi, ma le guerre di lunga durata.

E noi cosa facciamo? Aumentiamo la spesa per armamenti fino al 2% del nostro Pil, in modo tale che possiamo continuare ad aiutare questi popoli a casa loro. Se solo spendessimo una piccola parte di questi miliardi per i corridoi umanitari molti rinuncerebbero a rischiare la vita puntando su una futura possibilità di arrivare dignitosamente nel nostro paese. Come già avviene grazie alla Caritas, a Sant’Egidio e alla Federazione delle Chiese Evangeliche, che finanziano i corridoi umanitari dal Libano, dalla Libia, dall’Afghanistan ecc.

Si tratta, purtroppo, di piccoli numeri che hanno un grande valore umano – ogni vita salvata ha un valore- ma non possono offrire una risposta adeguata come potrebbe offrirla lo Stato. Ed invece il nostro governo pensa a murare le frontiere, a fare morire in mare i profughi impedendo alla Ong di salvarli, spostando verso Nord i porti autorizzati in modo tale che queste navi umanitarie possano salvare il meno possibile, le nostre industrie cercano disperatamente manodopera che non trovano più, devono ridurre le attività per mancanza di personale.

Ma, neanche i richiami di Confindustria riescono a incidere su un governo così spietato, cinico, crudele, come non l’avevamo mai visto. Se non ci sarà una ribellione di massa, se la maggioranza degli italiani resterà indifferente rispetto a queste stragi di migranti, allora avremo perso definitivamente la nostra umanità.

da “il Manifesto” del 28 febbraio 2023

Il rischio di una nuova Linea Gotica.-di Tonino Perna

Il rischio di una nuova Linea Gotica.-di Tonino Perna

Il varo dell’autonomia differenziata, che speriamo incontri una serie di ostacoli negli step successivi, rischia di spaccare il nostro paese al di là di quello che oggi si possa immaginare. Infatti, se fosse applicata come chiedono le Regioni Lombardia, Veneto e, sia pure con qualche distinguo, l’Emila Romagna, provocherebbero in pochi anni una divaricazione salariale, prima nel settore pubblico e poi, per la caduta della domanda, nel settore privato peggiore delle gabbie salariali che c’erano negli anni ’50 del secolo scorso.

Cerchiamo di entrare nel merito, considerando i desiderata della Lega e ipotizzando che vengano attuati. Tra quello che le singole Regioni danno allo Stato con imposte, accise, ecc. e quello che ricevono si è creato nei decenni una divaricazione sempre più marcata. Tre Regioni, ovvero Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, hanno un budget negativo nei confronti dello Stato mentre le Regioni a Statuto Speciale- Sardegna, Sicilia, Valle d’Aosta, Trentino A.A, Friuli V.G. fanno registrare un surplus, vale a dire che ricevono più di quello che danno. La Regioni del Centro Italia sono grosso modo in pareggio, il Piemonte ha un surplus marginale, mentre la Liguria presenta, unitamente a tutto il Mezzogiorno, un attivo considerevole.

Per la cronaca la regione che ha il surplus in percentuale maggiore è la Calabria, quanto per cambiare, che diventerebbe la regione più penalizzata dall’autonomia differenziata. Se i flussi di entrata ed uscita tra la popolazione calabrese e lo Stato andassero in pareggio il reddito pro-capite arriverebbe a perdere dopo tre anni circa il 30%. Questo comporterebbe in primo luogo una caduta dei salari reali dei dipendenti pubblici, salvo che il governo regionale, ipotesi non credibile, non riducesse drasticamente l’occupazione nella sanità, scuola, servizi sociali, ecc, per mantenere lo stesso livello dei salari reali con il Nord.

In media le regioni meridionali perderebbero tra il 15 e il 20 per cento del reddito pro-capite e di conseguenza dei livelli salariali. Come avverrebbe questo taglio ai salari? Semplicemente non adeguandoli all’inflazione nei prossimi anni, mentre nelle tre regioni del Nord più ricche si avrebbe più che un recupero dell’inflazione, rendendo nuovamente attraente l’impiego pubblico, come per altro avviene in Centro e Nord Europa.

E’ facile immaginare che, al di là delle proteste, una buona parte dei meridionali cercherebbe di trovare lavoro nelle aree più ricche del Nord, creando un problema di concorrenza nel mercato del lavoro. A questo problema la Lega Nord ci ha già pensato da tempo con varie proposte che finora erano state bocciate, ma che l’autonomia rende possibile. Per esempio, per entrare nella pubblica amministrazione di queste regioni del Nord, dalla scuola alla sanità agli enti locali, devi avere almeno cinque anni di residenza provata. Un deterrente che certamente susciterà non poche polemiche e proteste di piazza.

Dobbiamo prendere atto che l’autonomia differenziata se passasse nei termini proposti da Calderoli creerebbe una sorta di Linea Gotica che spacca il nostro paese in due. E il governatore Pd dell’Emilia Romagna ne è responsabile quanto i presidenti regionali della Lega.

Per fortuna i giochi non sono ancora fatti, ma il rischio è alto. Che fine faranno le cinque regioni a Statuto speciale che percepiscono un lauto surplus, tra entrate e uscite, da parte dello Stato? E la Liguria che rischia di perdere qualcosa come il 10 per cento del suo reddito continuerà a stare a guardare? E la Meloni, che dell’Unità d’Italia ne ha fatto sempre una bandiera, potrà tener fede al patto con la Lega, allo scambio del presidenzialismo con l’autonomia differenziata? Ma, soprattutto, i governatori del Sud, a qualunque partito appartengano, potranno permettersi di restare alla finestra guardando a questo scippo che metterebbe fine ad ogni sogno di riscatto del Mezzogiorno?

da “il Quotidiano del Sud” del 7 febbraio 2023

Altro che precipizio, siamo in guerra.-di Tonino Perna

Altro che precipizio, siamo in guerra.-di Tonino Perna

Mandiamo al governo ucraino armi sempre più potenti e sofisticate, ne addestriamo le truppe, martelliamo i nostri concittadini con una propaganda bellica martellante.

Guidiamo gli attacchi all’esercito russo dai nostri satelliti che spiano il fronte, e tutta l’area interessata al conflitto, 24 ore su 24.
E stanno per chiederci di mandare le nostre truppe, secondo i generali in pensione Marco Bartolini, già a capo del Comando operativo interforze (Coi) e Leonardo Tricarico, ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica.

Tra l’altro questi generali, che certamente non possono essere annoverati tra gli ingenui pacifisti, si sono pubblicamente espressi contro l’invio dei famosi carri armati Leopard perché rischiano di provocare una risposta dagli esiti imprevedibili che potrebbe portarci alla catastrofe.

Siamo in guerra contro la Russia senza che sia stata ufficialmente dichiarata. Malgrado il famoso articolo 11 della nostra Costituzione ci vieta di partecipare ad una guerra offensiva e ci invita a contribuire a risolvere con mezzi pacifici le controversie internazionali, non abbiamo fatto neanche un timido tentativo di mediazione.

Abbiamo lasciato questo ruolo di mediazione tra Zelensky e Putin ad un governo liberticida come quello turco del Sultano di Erdogan, che ha imprigionato migliaia di dissidenti e continua a bombardare impunemente il popolo curdo in Siria, lo stesso popolo che ha lottato, con noi, coraggiosamente contro la barbarie dell’Isis, liberando le città che questi criminali avevano occupato e distrutto.

Siamo in guerra malgrado tutti i sondaggi ci dicono che la maggioranza degli italiani sia contraria a continuare a mandare armi all’Ucraina, a proseguire nel sostenere questa escalation bellica che sta diventando irreversibile.
Siamo in guerra contro la Natura, la Madre Terra, perché questo conflitto tra la Nato e la Russia ha prodotto un’impennata nella corsa agli armamenti che è una delle cause principali dell’inquinamento del pianeta e dell’effetto serra. Siamo in guerra, malgrado gli appelli addolorati di papa Francesco, voce di colui che grida nel deserto. Siamo in guerra senza se e senza ma.

Siamo in guerra e ci sentiamo impotenti. Possiamo ritornare a scendere in piazza, ma abbiamo visto che questa iniziativa non ha scosso di un millimetro l’appoggio alla guerra, all’invio di armi. Ma, se non facciamo niente siamo complici di questo massacro annunciato.

In questo momento nessuno ha la chiave magica che serve a bloccare questa corsa verso il baratro, ma tutti coloro che credono che non ci sia alternativa alla trattativa, al cessate il fuoco, al fermare la bestialità che è in noi e fare parlare la ragione, devono sforzarsi di trovare una risposta, a immaginare una iniziativa per uscire da questo silenzio complice. Personalmente credo che bisogna riprendere la battaglia contro le armi degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, attraverso l’obiezione fiscale. Semplicemente facendo sapere al governo in carica che si rimanda per quest’anno il pagamento di tasse e tributi finché saremo in guerra.

Non penso che così fermeremo questa guerra, ma almeno prenderemo le distanze e potremo dire “NON CON I MIEI SOLDI”. Ma, credo soprattutto in uno sforzo collettivo per trovare tutti i modi possibili per opporci a questa assurda deriva dell’umanità. Perché di questo si tratta, non solo della nostra pelle. La guerra nucleare non è lo spauracchio usato dal governo russo come ci vogliono far credere, ma una possibilità concreta che nasce dalla convinzione che Putin sia proprio un dittatore spietato che pur di non essere cacciato dal potere è disposto a tutto.

Così come Zelensky pur di vincere questa guerra è disposto a vedere rase al suolo le città dell’Ucraina e ridotto alla fame e alla miseria l’intero popolo ucraino.

da “il Manifesto” del 26 gennaio 2023
Di Bundeswehr-Fotos – originally posted to Flickr as Leopard 2 A5, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11586260

Guerra ibrida. Il bisogno crescente di un’informazione indipendente.-di Tonino Perna

Guerra ibrida. Il bisogno crescente di un’informazione indipendente.-di Tonino Perna

Da quando è scoppiata questa maledetta guerra in Ucraina si è percepita subito una nuova dimensione del conflitto giocato oggi su più piani, che sempre più spesso troviamo sulla stampa con la qualificazione di «guerra ibrida». Significa una guerra che si conduce non solo sul piano militare, ma anche su quello della propaganda, diventata un’arma ugualmente letale, ed anche sull’uso degli hackers e della cyberwar che mettono fuori gioco interi sistemi logistici e possono mettere in ginocchio un paese più delle armi.

Nella letteratura scientifica sono stati pubblicati alcuni testi su questa nuova categoria della guerra ibrida. Ne è nato un dibattito a livello accademico, partito da alcuni studiosi di Oxford, sulla definizione di Hybrid warfare dove sono analizzate tutte le possibili strategie di guerra che non appartengono ai sistemi tradizionali caratteristici de i conflitti nel secolo scorso.

C’è da dire che la propaganda è stata un’arma ampiamente usata anche in passato, da quando sono nati e si sono diffusi i moderni mezzi di comunicazione di massa.

Certamente non lo era al tempo dei Romani o nel Medio Evo, ma già con la nascita dei quotidiani il potere politico ha messo tutte e due le mani sull’informazione in tempo di guerra. Oggi i social network sono uno strumento potente di diffusione delle notizie che è diventato prevalente nell’ultimo decennio. La novità consiste nel fatto che mentre prima ogni governo in guerra tempestava la propria popolazione con informazioni manipolate, sui danni al nemico e sulle proprie perdite, così come sulle ragioni del conflitto, oggi grazie alla tecnologia digitale un governo può usare i social dell’avversario per diffondere fake news a volontà. In altri termini, riesce a fare la sua propaganda sul terreno dell’avversario.

Anche le immagini catturate durante il conflitto non costituiscono più una prova al cento per cento, possono essere manipolate a piacere e seconda dell’obiettivo che si vuole raggiungere. In sostanza, la guerra ibrida fa emergere un fatto di cui dobbiamo prendere atto: la prevalenza della costruzione politica della realtà. Nell’era della scienza e della tecnica in cui l’umanità sembrava essersi liberata da magie e superstizioni, una sfida ben più grande si pone per chi vuole conoscere la Verità, non in astratto ma rispetto ad un conflitto come quello in Ucraina in cui muoiono migliaia di persone e non se ne vede la fine.

In un tempo in cui siamo bombardati letteralmente da un’infinita di informazioni non sappiamo, per esempio, quanti sono stati i militari ucraini morti in guerra, mentre sappiamo, forse, che quelli russi sono centomila. Come mai, ci domandiamo, non esiste un dissenso rispetto a continuare questa guerra suicida da parte del popolo ucraino? Una parte del popolo russo ha protestato i primi mesi contro questa guerra e l’ha pagata duramente, ma non sappiamo quanti sono fuggiti per non essere reclutati e, dall’altra parte, quanti giovani ucraini sono scappati per non finire al fronte. O sono tutti eroi? E che fine hanno fatto ministri e generali rimossi da Putin o le migliaia di dissidenti incarcerati?

Si può dire con un grande filosofo che «non esistono fatti ma solo interpretazioni», ma così si cade in un relativismo assoluto che impedisce qualunque pensiero critico o iniziativa politica. Ed invece abbiamo bisogno per agire di capire, di farci un’idea più chiara delle partite che si stanno giocando in questa tremenda guerra ibrida.

Come la sordida guerra tra le valute, che non si può lasciare agli analisti finanziari, ma che ha ricadute politiche importanti come l’uscita del dollaro dagli scambi commerciali e finanziari tra Russia, Cina e India.

Una informazione indipendente è fondamentale in questa fase storica. Per questo sostenere questo giornale e gli altri pochi spazi di informazione libera costituisce un atto politico di primaria importanza. Certo, sappiamo che è una lotta impari contro gli oligopoli/piattaforme dell’informazione ma non abbiamo alternative se non vogliamo rinunciare a pensare con la nostra testa. La campagna abbonamenti per sostenere il manifesto, con la bella foto di Luciana Castellina, non poteva cadere in un momento storico più cruciale.

da “il Manifesto” dell’11 gennaio 2023
Foto di Дмитрий Буханцов da Pixabay

Il nostro Sud affonda nella crisi euromediterranea.-di Tonino Perna

Il nostro Sud affonda nella crisi euromediterranea.-di Tonino Perna

E’ uno scenario estremamente preoccupante quello disegnato per il 2023 dal Rapporto Svimez, in particolare per il Mezzogiorno. Nella più probabile delle sue previsioni, il Centro-Nord vedrà un reddito pro-capite tra lo 0 e l’1%, mentre per tutte le regioni meridionali sarà negativo (-0,4%). Se al Sud aumenteranno le persone sotto la soglia della povertà, e un colpo fatale per 600mila famiglie verrà dal taglio del RdC, anche per il ceto medio le previsioni sono negative.

Di fronte ad un tasso di inflazione che corre al 12% il governo avrebbe dovuto prevedere un pari aumento di spesa per la sanità, la scuola, l’Università, i servizi sociali solo per mantenere i livelli attuali di prestazioni. Invece c’è un incremento di meno dell’1% per la sanità e il mantenimento dei tetti di spesa negli altri settori. Risultato: un peggioramento del welfare per tutti i cittadini italiani che colpirà ancor di più le regioni meridionali che ne hanno più bisogno. Se poi dovesse passare, anche in parte, l’autonomia fiscale differenziata l’Italia si spaccherebbe in due definitivamente. Ma, già adesso la divisione è netta e profonda.

Basti osservare i dati del Report di Italia oggi sulla qualità della vita nelle province italiane. Nella graduatoria finale, sintesi di 92 indicatori, nei primi 63 posti ci sono solo province del Centro-Nord. Colpisce in particolare la voce “istruzione e formazione”, che aggrega cinque indicatori significativi: partecipazione alla scuola dell’infanzia, diploma di scuola secondaria, partecipazione a programmi di formazione continua, studenti con particolari competenze alfabetiche e numeriche. Risultato finale: nelle prime 68 province non ce n’è una meridionale, ad eccezione di Cagliari e delle province abruzzesi e molisane (che ormai appartengono più al Centro Italia che al Sud).

Da almeno trent’anni la “questione meridionale” come questione nazionale, è morta e sepolta, ma adesso assistiamo ad un tentativo di espulsione del Mezzogiorno, di trasformazione di questo territorio in una sorta di G.R.A. (Grande Riserva per Anziani), disabili, disoccupati a basso o nullo livello di qualificazione. Siamo, infatti, di fronte ad un’altra svolta della storia, ad un terremoto geopolitico paragonabile a quella del dopo ’89.

Con la caduta del muro di Berlino la strategia europea, a trazione tedesca, ha guardato ad est, voltando le spalle al Mediterraneo, e quindi marginalizzando i paesi che si affacciano sul mare nostrum.

Dopo l’ultimo incontro euro-mediterraneo di Barcellona del ’95, nessun passo in avanti si è fatto sulla cooperazione/integrazione euromediterranea, anche quando con le Primavere arabe si era aperta una opportunità, e sarebbe stato importante sostenere i movimenti della società civile. Armi e business, nessun’altra modalità di relazione tra i governi europei e quelli della sponda sud-est del Mediterraneo che nel frattempo è diventato una polveriera: guerra in Siria, conflitto crescente in Palestina, tra governo turco e aree controllate dai kurdi, implosione del Libano (ex-Svizzera del Medio Oriente), ecc.

Oggi, con la guerra tra Russia e Ucraina, il conflitto strisciante tra Usa e Cina, si sta ridisegnando uno spazio socio-economico e politico a livello mondiale. La Ue è in fibrillazione, la subalternità alle politiche Usa ha un costo crescente, riduce gli spazi di mercato e mette in crisi l’Euro. Per sostenere la moneta europea la Bce sarà costretta ad alzare ancora i tassi d’interesse approfondendo la stagflazione in atto. Inevitabilmente ci sarà un “si salvi chi può”, con i Paesi del Nord Europa che chiederanno una nuova politica di austerity per i paesi più indebitati.

Si riproduce, ad un più alto livello, la situazione che ci ha visto retrocedere, rispetto agli altri paesi Ue, dal 2011 al 2018, con i salari reali in discesa, il peggioramento dei servizi pubblici, una forte riduzione del welfare e una relativa crescita della povertà. In questo scenario prevedibile, le regioni del Nord chiederanno a gran voce la secessione fiscale e il governo Meloni se vorrà sopravvivere dovrà mediare concedendo qualcosa e peggiorando ancora le condizioni del Mezzogiorno, ma difficilmente manterrà unito questo nostro Paese.

Anche i presidenti delle regioni meridionali mancano di un progetto comune, di una scala di priorità da porre sul tavole del governo. Anzi, c’è chi chiede l’autonomia per quanto riguarda l’energia (la Basilicata in primis), chi per i pedaggi di attraversamento, chi per altre voci di bilancio. E facilmente ritorna di grande attualità l’invettiva di Dante: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta non donna di province ma bordello».

da “il Manifesto” del 30 novembre 2022

Riecco il Ponte sullo Stretto, arma di distrazione di massa.-di Tonino Perna

Riecco il Ponte sullo Stretto, arma di distrazione di massa.-di Tonino Perna

Una sorta di accanimento terapeutico, puntuale a ogni cambio di governo di centro-destra. Il Ponte sullo Stretto come panacea, che risolverà tutti i mali del Sud. La questione meridionale è fuori dall’agenda politica e dalle vere priorità dei governi della Repubblica dagli anni ’90 del secolo, quando divenne il centro del dibattito politico la “questione settentrionale” con l’emergere della Lega Nord di Bossi.

Ancora il Ponte anche se si sa che lo Stretto di Messina è un territorio fragile, che Sicilia e Calabria si staccano di un centimetro ogni 5 anni (per questo c’è chi ha pensato persino ad un ponte elasticizzato),che siamo in una delle zone sismiche più pericolose del mondo, dove nel 1908 morirono centomila persone, il numero di vittime più alto nel secolo scorso.

Non c’è ancora un progetto definitivo, non si sa quanto costa e chi ci mette i soldi, ma in compenso escono i numeri al lotto su alcuni organi di stampa: 7 miliardi dieci anni fa e quattro miliardi adesso, alla faccia dell’inflazione. Nessun privato è disposto a rischiare un soldo su un opera con questi gradi di incertezza e Bruxelles ha fatto già sapere che non si può attingere alle risorse del Pnrr perché l’opera dovrebbe essere completata entro il 2026. Ovviamente non è possibile: per l’ammodernamento della Salerno- Reggio Calabria ci son voluti trent’anni.

Soprattutto, nessun progetto finora si è visto che consenta solo di immaginare come si colleghi il Ponte alle autostrade e stazioni ferroviarie sulla sponda calabrese e siciliana. Tutti i mass media presentano da anni una foto- rendering (sempre la stessa) che poggia il Ponte sulle due sponde. Bellissimo. Ma come ci si arriva? Dalla parte siciliana la ferrovia arriva a sud della città e Ganzirri, dove dovrebbe sorgere il pilone portante, è situato nella parte opposta a circa 20 km. Per portare i binari a 90 metri in quota bisognerebbe rifare un bel pezzo di tracciato ferroviario e passare sopra la testa delle case sulla collina o scavare gallerie in un terreno di sabbia pura che procura da diverso tempo danni alle abitazioni esistenti, con frequenti smottamenti.

Ugualmente dalla sponda calabrese, la ferrovia dovrebbe ripartire da Gioia Tauro e passare dentro le montagne di Palmi, Bagnara, Scilla per sbucare sulla testa degli abitanti di Cannitello. Per non parlare dell’autostrada. Un costo enorme, un impatto ambientale spaventoso, una pura follia.

Il Ponte sullo Stretto è diventato una possente “arma di distrazione di massa” come la definì Alessandro Bianchi, ex ministro dei Trasporti e Rettore della Università Mediterranea agli inizi di questo secolo. Purtroppo, non sono solo le forze politiche del centro-destra ad essere dei fan del Ponte, ma anche una parte del Pd è favorevole, e non da adesso. Ricordo quando durante la campagna elettorale del 2001 l’allora candidato del centro-sinistra Giorgio Rutelli intervenendo nella Facoltà di Scienze Politiche a Messina dichiarò: Il Ponte lo farò io e verrò qui ad inaugurarlo nel giugno del 2011.

Quello che mi stupisce è il silenzio dei presidenti delle altre Regioni meridionali. Nel momento in cui stanno tentando di espellere dal welfare italiano il Sud, dandogli il colpo di grazia con l’autonomia fiscale differenziata, stanno scippando in silenzio le risorse del Pnrr che l’Ue ci ha dato proprio per il basso reddito pro-capite e alta disoccupazione del Mezzogiorno, la classe politica meridionale sembra si sia svegliata solo ora con la proposta di legge Calderoli, quando erano chiarissime le priorità di questo governo.

Il Ponte sullo Stretto come suprema opera di regime, come simbolo del primo governo di destra-destra della Repubblica italiana, come specchietto per le allodole meridionali: non potete lamentarvi, vi stiamo per regalare un’opera che farà decollare il Mezzogiorno, che porterà milioni di posti lavoro e miliardi di turisti. E i sindacati? O meglio Cgil e Uil perché la Cisl è diventata la ruota di scorta del governo. Non si rendono conto delle condizioni del Mezzogiorno, di come siano peggiorate negli ultimi anni! Basterebbe guardare i dati dell’inchiesta di Italia oggi sulla “qualità della vita” nelle province italiane: nella graduatoria finale, sintesi di 92 indicatori, le prime migliori 64 province sono del centro-Nord, non ce n’è una sola del Mezzogiorno. Ugualmente rispetto ai tassi di disoccupazione: si passa dal 2-3% di Pordenone, Bergamo, Livorno ai 22% di Messina, Napoli, Crotone (ben ultima), con le prime migliori 60 province tutte del Centro-Nord.

L’autonomia differenziata sarà irreversibile. Cari partiti, abbiate coraggio e ammettete l’errore.

da “il Manifesto” del 22 novembre 2022
Immagine da:https://www.breakinglatest.news/business/messina-strait-bridge-giovannini-we-need-a-connection/

La Calabria e il Mezzogiorno nel paese delle diseguaglianze.-di Tonino Perna

La Calabria e il Mezzogiorno nel paese delle diseguaglianze.-di Tonino Perna

Lo scorso 7 novembre “Italia Oggi” ha pubblicato il Report sulla qualità della vita nelle provincie italiane, una ricerca condotta in partnership con l’Università La Sapienza di Roma. Precisiamo subito che i dati si riferiscono in gran parte al 2021 e la graduatoria finale è la media di ben 92 indicatori che spaziano dai servizi sociali ai reati, dalle criticità finanziarie al tempo libero, dal patrimonio al reddito, dall’inquinamento alla durata media della vita, dai tassi di immigrazione al tasso di disoccupazione, ecc. Ne abbiamo citato solo alcuni per la complessità della ricerca realizzata. Certamente la “qualità della vita” non è misurabile come non lo è la felicità. I testi sulla felicità percepita dai popoli mi hanno fatto sempre sorridere per l’assoluta ingenuità e presunzione di poter misurare ciò che non lo è, di voler comparare ciò che non è comparabile. Comunque, con tutti questi limiti, questa ricerca è preziosa, soprattutto se andiamo ad analizzare alcuni dati incontrovertibili.

Entrando nel merito diciamo subito che il quadro complessivo che ci viene presentato è l’immagine di un paese in cui le diseguaglianze sociali e territoriali crescono ancora. Su 107 province italiane 35 appartengono al Mezzogiorno e rappresentano circa il 34% della popolazione residente a livello nazionale, e circa il 30% della popolazione presente. La distanza tra questa parte del nostro paese e il centro-nord si è accentuata. Nella graduatoria finale nei primi 63 posti ci sono solo province del Centro Nord! Nelle ultime venti province ci sono solo quelle del Mezzogiorno ad esclusione delle province dell’Abruzzo, Molise, Basilicata e parzialmente della Sardegna. Quindi registriamo anche una divaricazione all’interno del Mezzogiorno, con alcune aree che tendono a stabilirsi su parametri più vicini al Centro Italia. Crotone, come ormai è noto, compare ancora una volta all’ultimo posto, mentre la provincia catanzarese si conferma la migliore della Calabria. Al di là delle divaricazioni nel reddito pro-capite quello che più colpisce è lo scarto in altri settori.

Colpisce in particolare lo scarto esistente per quanto riguarda la voce “istruzione e formazione”: nelle prime 68 province italiane non ce n’è una meridionale, ad eccezione di Cagliari e delle province abruzzesi e molisane. Tra le province calabresi spicca, come c’era da attendersi, la migliore performance per Cosenza, mentre si conferma all’ultimo posto Crotone e non se la passa tanto bene neanche Reggio Calabria (102°) pur avendo due Università e vari istituiti di formazione. Colpisce il quart’ultimo posto di Napoli che occupa gli ultimi posti per la partecipazione alla scuola dell’infanzia, per il possesso di almeno un titolo di scuola media superiore e persino per il possesso della laurea, pur godendo di una prestigiosa Università come la Federico II.

Rispetto al tasso di mortalità, su 1000 residenti, è stato nel 2021 leggermente più alto nel Centro Nord rispetto al Sud (probabilmente perché la pandemia ha colpito più quest’area), mentre rispetto alla speranza di vita alla nascita è nettamente migliore la condizione del Centro Nord rispetto al Mezzogiorno, con la sola eccezione di Cagliari. In sostanza chi oggi nasce a Firenze o Milano ha mediamente più di tre anni e mezzo di aspettativa di vita rispetto a chi nasce nella provincia di Napoli, Enna o Siracusa, ultima in classifica (un dato, a nostro modesto avviso, legato al grande inquinamento del polo petrolchimico di Augusta- Priolo). Una buona notizia per i catanzaresi e vibonesi: gli over 65 hanno una speranza di vita di quasi un anno superiore al resto delle altre province calabresi. Più complessa l’immagine che la ricerca ci presenta rispetto a quello che definisce “sistema salute”. Nei primi venti posti della graduatoria troviamo undici province meridionali, mentre negli ultimi venti posti sono solo cinque le province meridionali, malgrado l’esperienza ci dica il contrario.

È invece molto chiaro il quadro che emerge rispetto alla microcriminalità, che poi è quella che preoccupa di più la maggioranza della popolazione. Se prendiamo in considerazione i “furti in appartamento” nelle prime 20 province più colpite dal fenomeno, 19 appartengono al Centro Nord. Per avere un’idea della differenza basti confrontare i 413 furti in appartamento ogni centomila abitanti a Bologna contro i 51 a Nuoro e 80 a Reggio Calabria. Ugualmente alla voce “scippi e borseggi” troviamo che ad Enna sono 5 ogni centomila abitanti, a Crotone 9, mentre nella sonnacchiosa Firenze 410 e a Milano 467! Al contrario per i “furti d’auto” a Sondrio e Pordenone se ne registrano 5 mentre a Barletta si arriva a 567 ed a Napoli 482. Negli ultimi venti posti in classifica, ad eccezione di Monza-Brianza, sono tutte province meridionali quelle che sono colpite da questo reato. Più variegato è il quadro nazionale per quanto riguarda le “estorsioni” : nelle ultime venti province accanto a Foggia (la peggiore), Trapani, Catanzaro, Vibo, Napoli, troviamo Asti, Trieste, Rimini, Bologna. Ma, le prime 20 province meno colpite da questo reato sono tutte del Centro- Nord ad eccezione di Benevento e Chieti.

Nella voce “turismo e tempo libero” la divaricazione C-N e Mezzogiorno è palese. Alla voce “sale cinematografiche” (in crisi come sappiamo in tutta Italia), le prime 30 province sono tutte del Centro-Nord (ad eccezione di Nuoro e Matera), così come le “palestre” ne abbiamo 13 a Rimini ogni 100.000 ab. e 0,5 a Crotone, ugualmente per il mondo delle “associazioni” dove alle 50 di Firenze, 49 di Siena e 46 di Trieste fanno da contraltare le 2,8 di Crotone (ultima in classifica), le 3,5 di Avellino. Buona la posizione di Reggio Calabria con 11,7 associazioni ogni centomila ab. e di Cosenza con 9.1. Anche in questo caso le prime 34 province sono tutte del C-N. Anche per le “librerie” abbiamo una situazione simile: le prime 23 province sono del C-N (con l’eccezione della solita Sassari, città ormai appartenente più al Centro che al Sud) e la 24° è Catanzaro, un dato che ci fa ricordare quanto scriveva Guido Piovene a metà degli anni ’50 su questa città nel suo famoso “Viaggio in Italia”: <>.

Un dato incredibile che contrasta con gli stereotipi è quello che si riferisce alla presenza di “bar e caffè” in percentuale rispetto agli abitanti: nei primi venti posti troviamo le province del C-N (16 su 20, a partire da Sondrio !) , mentre in fondo alla graduatoria c’è Catania, insieme ad una sfilza di province meridionali che occupano gli ultimi dieci posti. L’immagine del meridionale seduto al bar che chiacchiera o gioca a carte viene rovesciata. Stesso quadro ci offre la tabella relativa ai “ristoranti”: Ai 200 di Aosta, prima in classifica, si contrappongono i 21 di Caltanissetta o i 27 di Catania (un dato sorprendente!), e tra le prime trenta province nella graduatoria solo tre sono meridionali, l’Aquila, Teramo e la solita Sassari.

Per ragioni di spazio non possiamo approfondire il noto divario economico, ma possiamo dire che si conferma la crescita di questa distanza e mostrare un dato che forse è più significativo di altri: la percentuale di immigrati rispetto alla popolazione. I primi quaranta posti sono occupati esclusivamente dalle province del C-N , con la netta prevalenza di città capoluogo di medie dimensioni, mentre gli ultimi 25 posti in graduatoria appartengono al Mezzogiorno: se a Pavia o Biella ci sono 44 immigrati ogni 1000 residenti, a Barletta sono 10, a Bari 17, come a Crotone e Reggio Calabria.
Al di là dei dati relativi al mercato del lavoro, credo che questo sia un indice che meglio di ogni altro testimonia della diseguaglianza territoriale: i flussi migratori vanno dove c’è il lavoro e indirettamente ci danno una misura delle divaricazioni territoriali.

Infine, una nota positiva per alleggerire il quadro del Mezzogiorno. Malgrado i suoi tanti problemi sul piano socio-economico, i meridionali amano di più la vita del resto degli italiani: il tasso di suicidi è nettamente più basso nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord (con la sola eccezione di Genova, chissà perché?). Per avere un’idea: se a Napoli registriamo 2 suicidi ogni 100mila abitanti, a Bolzano sono 10, ad Aosta 12, e a Biella (ultima) arrivano a 15.
Non possiamo esimerci da una considerazione finale. L’Italia, come emerge da questa ricerca, è un paese complesso, articolato, dove non sempre la linea di demarcazione è quella Centro Nord –Mezzogiorno.

Anche all’interno dell’area meridionale ci sono delle differenze significative, ma nel complesso rimane intatta la “questione meridionale” , nell’accezione storica di questa categoria. Ovvero, rimane una distanza pesante e crescente nella formazione/istruzione, nei servizi sociali, nella domanda di lavoro, nella spesa per la cultura e il cosiddetto “tempo libero”. Se dovesse passare la “autonomia differenziata” reclamata dalla Lega, che si fonda sulla spesa storica nella pubblica amministrazione, questo divario verrà cementificato e non ci saranno più speranze per una unificazione del nostro paese. Che non significa che dobbiamo avere tutti lo stesso reddito pro-capite, ma i livelli essenziali di assistenza, le occasioni per istruirsi e formarsi, la spesa per la cultura, ecc. insomma gli stessi diritti di cittadinanza. Niente di più e niente di meno.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 novembre 2022

Il Mezzogiorno ’desaparesido’ nei programmi.-di Tonino Perna

Il Mezzogiorno ’desaparesido’ nei programmi.-di Tonino Perna

In questa surreale campagna elettorale qualche sporadico commentatore si è accorto che il Mezzogiorno è scomparso dall’agenda politica dei partiti. Non è una novità. Da almeno vent’anni il Mezzogiorno come priorità è scomparso nei programmi delle forze politiche. Già negli anni ’90 del secolo scorso il riferimento al Mezzogiorno era diventato rituale, secondo il noto refrain “sviluppo, occupazione, Mezzogiorno”, ripetuto stancamente dai sindacati Confederali quanto dalle forze della Sinistra.

Nel frattempo il divario Nord/Sud nel nostro paese è cresciuto sia in termini di reddito che di servizi sociali e sanitari, ma soprattutto l’emigrazione giovanile è aumentata vistosamente come non avveniva dagli anni ’50 del secolo scorso. In quest’ultimo decennio si stima che due giovani su tre sia emigrato dal Sud per ragioni di lavoro e di studio, anche dalle regioni meridionali che hanno avuto un importante sviluppo in alcuni settori, come la Puglia, e il tasso d’emigrazione si è ridotto parzialmente solo in Sardegna e negli Abbruzzi.

Le popolazioni meridionali hanno assistito a questo salasso in silenzio: non ci sono più lotte sociali, mobilitazioni di massa se non per vertenze locali specifiche. La “restanza”, come la definisce con un efficace neologismo l’antropologo Vito Teti, è una scelta coraggiosa di pochi eroi solitari, di qualche esperienza esemplare, mentre la normalità è la fuga e l’accettazione passiva del presente.

Si può dire, senza tema di smentita, che la rassegnazione sia in questo momento la cifra dell’Italia, che ci accingiamo a consegnare ad una destra neofascista il nostro paese come fossimo di fronte alla potenza del Fato. E così siamo diventati ciechi e non vediamo che proprio nel Mezzogiorno ci potrebbe essere la risposta più efficace alla crisi che stiamo attraversando.

La crisi energetica e quella alimentare ci hanno posto di fronte ad una realtà che i bassi prezzi degli idrocarburi e dei cereali ci avevano permesso di ignorare. Ci sono settori vitali per un paese che non possono essere lasciati ai giochi della finanza internazionale. L’energia e i beni alimentari di base devono essere considerati beni strategici e come tali bisogna puntare all’autosufficienza, almeno a livello europeo. In breve, questa crisi ci ha insegnato che non possiamo continuare a inseguire il nostro vecchio modello di sviluppo.

Cambiando ottica e prospettiva allora possiamo vedere come il Mezzogiorno possa giocare un ruolo fondamentale per uscire da questa crisi e intraprendere una nuova strada. Sulla produzione di energia rinnovabile – sole e vento in primis, ma non solo- il territorio meridionale potrebbe rendere autosufficiente il nostro paese se ci fosse la volontà politica di avviare celermente un serio programma in questa direzione. Non bastano incentivi ai privati e sburocratizzazione per le autorizzazioni, sicuramente necessarie, è decisivo unintervento diretto dello Stato, attraverso le aziende a partecipazione pubblica come l’ENEL in cui è ancora il maggiore azionista.

Purtroppo, la logica delle liberalizzazioni, l’aver trasformato servizi pubblici essenziali (come l’energia o l’acqua) in merci qualunque, la cui proprietà finisce spesso in mano a fondi speculativi internazionali, rende non facile questa operazione. Verrebbe da dire che rimpiangiamo, malgrado tutto, la prima fase della Cassa per il Mezzogiorno che fece investimenti strutturali di grande valore in poco tempo, prima di cadere nella morsa della corruzione.

Ugualmente nel campo dell’agricoltura si rende urgente un cambiamento di modello produttivo. La nostra forte dipendenza dall’importazione di grano e mais non può essere più accettata. Da una parte, bisogna ridurre drasticamente gli allevamenti intensivi che oltre ad essere una fonte primaria di inquinamento, fanno male alla salute e ci rendono dipendenti dal mais importato. Dall’altra, ci sono terre incolte, centinaia di migliaia di ettari abbandonati in tutto l’Appennino e nelle zone collinari e montagnose delle due isole maggiori.

Anche in questo caso è nel Mezzogiorno che si concentrano le terre abbandonate e quindi la possibile loro utilizzazione ai fini di un’agricoltura per il benessere dei cittadini e dell’ambiente, di una pastorizia sostenibile sia sul piano sociale che ambientale, di una agricoltura contadina moderna come ci ha ricordato più volte Piero Bevilacqua. Anche in questo caso ci vorrebbe un intervento pubblico forte e deciso: una nuova Riforma agraria in chiave di transizione ecologica. Questo non è romanticismo ma una risposta che guarda al futuro, dove il Mezzogiorno non chiede di eguagliare il Nord, come modello di produzione e consumi, ma di dare all’Italia il suo contributo per renderla più libera e più vivibile.

da “il Manifesto” del 2 settembre 2022

Grandi e piccoli incendi divampano sulle rovine dell’ambiente.-di Tonino Perna

Grandi e piccoli incendi divampano sulle rovine dell’ambiente.-di Tonino Perna

Ogni anno la stessa storia. Anzi peggio, perché con l’innalzamento delle temperature e la siccità prolungata il propagarsi degli incendi diventa ancora più facile. Non è possibile che si ripeta pedissequamente lo stesso rito estivo: allarme incendi, analisi e denunzie, grandi dibattiti televisivi e poi…ad ottobre tutto è finito, ne parliamo un altro anno.

Se si va a guardare la mappa della Nasa sugli incendi che hanno attraversato il nostro pianeta nel 2021 scopriamo che l’area più colpita è l’Africa sub-sahariana seguita dall’Amazzonia, California, Siberia, ecc. E’ davvero incredibile la scarsa o nulla informazione rispetto agli incendi che colpiscono l’Africa Sub-Sahariana: nel 2021 la superficie forestale percorsa dal fuoco in questa parte del mondo è stata pari a quasi il 50 per cento degli incendi forestali nel nostro pianeta. E non si è trattato di un anno eccezionale. Da almeno un decennio un numero impressionante di incendi sta “silenziosamente” bruciando le foreste di Angola e Repubblica Democratica del Congo.

Nel bacino del Congo che ospita la seconda foresta pluviale più grande della Terra, ma non ha l’appeal dell’Amazzonia, si sono registrati solo nel 2021 oltre 3000 incendi! Certo, l’uso del fuoco ha una antica tradizione in diverse aree agro-pastorali del pianeta e, soprattutto nelle zone tropicali è stato tradizionalmente usato per accrescere la superficie coltivabile. Ma, la crescita della popolazione e la sua pressione sulle risorse, sia da parte dei pastori che dei contadini, ha rotto l’equilibrio nel rapporto tra uomo e ambiente facendo degenerare una pratica sociale che ha una lunga storia alle spalle. Il mutamento climatico non ha fatto altro che rendere ancora più grave questa situazione.

Se per la prevenzione degli incendi, il pronto intervento, si spendesse un decimo di quanto si spende per la spesa militare si riuscirebbe a ridurre il fenomeno entro limiti tollerabili. Certo, bisogna distinguere tra piccoli e grandi incendi che colpiscono vaste aree forestali, come nel Centro Africa, Siberia, Australia, ecc. In Europa è soprattutto con i cosiddetti “piccoli incendi” che dobbiamo fare i conti e non sappiamo farli. Basterebbe un presidio del territorio per spegnere immediatamente il fuoco quando parte. C’è un detto francese che recita più o meno così: quando parte il fuoco dopo dieci secondi basta un bicchiere d’acqua, dopo un minuto ci vuole un secchio, dopo un’ora i vigili del fuoco. In sostanza è la velocità con cui si interviene che è decisiva e questa dipende dalla presenza umana nel territorio.

Come è stato altre volte raccontato, nel Parco Nazionale dell’Aspromonte, nel Pollino e in altri parchi nazionali e regionali è stato in passato affidato il territorio a soggetti del Terzo Settore con contratti di “responsabilità territoriale”, in base ai quali veniva dato un contributo economico in ragione inversa alla superficie bruciata. Meno terreno bruciava più la cooperativa o associazione veniva premiata. Gli incendi non si possono prevedere, ma si possono spegnere sul nascere. Ed è quanto facevano un tempo gli agricoltori.

Il problema in gran parte dell’Europa mediterranea è che diverse aree interne sono state abbandonate e non c’è chi presidia il territorio, per questo ha funzionato quello che è stato chiamato “il modello Aspromonte”. Certamente questo modello non entusiasmava la lobby dell’antiincendio, il business delle società private che gestiscono elicotteri e canadair, e non è un caso se è stato abbandonato.

Più difficile è il controllo del territorio quando si tratta di vaste foreste disabitate o scarsamente abitate. «Gli scienziati nella previsione dei ’grandi incendi’ hanno lo stesso successo che in campo sismologico» scriveva Mark Buchanan nel suo saggio “Ubiquità”, ma questo non significa che non bisogna investire in studi e ricerche finalizzate a trovare le soluzioni più adatte ai diversi contesti.

Se pensiamo ad un nuovo mix di uomini e mezzi tecnici (come i droni) che possono presidiare il territorio anche a distanza di molti chilometri, crediamo che un serio contrasto ai “grandi incendi” si possa organizzare con successo. E dovrebbe avere una priorità per risparmiare tante vite e contrastare il mutamento climatico: questa crescita esponenziale degli incendi aumenta la quantità di CO2 nell’atmosfera, diminuisce la capacità di assorbimento che svolgono le piante, e quindi fa aumentare lo squilibrio dell’ecosistema con il conseguente aumento della temperatura, dei periodi di siccità, alluvioni sempre più frequenti, ecc. Il circolo vizioso che ci ha reso familiari gli “eventi estremi” e rischia di coinvolgerci in maniera irreversibile se non c’è un netto cambio di rotta che in questo momento non si vede. Anzi, si vede ma in senso nettamente contrario a quello che doveva essere, prima della guerra in Ucraina, la cosiddetta “transizione ecologica”.

da “il Manifesto” del 20 luglio 2022

Come difenderci dall’arrivo di eventi climatici estremi.-di Tonino Perna

Come difenderci dall’arrivo di eventi climatici estremi.-di Tonino Perna

Ci lamentiamo del caldo, ma qualcosa sta cambiando e non di poco conto. Inutile nascondere la testa sotto il cuscino mentre la vita sul Pianeta diventa sempre più complicata e messa a dura prova.

Il 28 maggio scorso a Turbat nella regione del Belucistan (Pakistan) si è toccato un nuovo record nelle alte temperature arrivando a 53,7 °C. Nell’ultimo decennio anche in altri paesi asiatici si sono superati i 50°C, in particolare in India, Iran e Iraq.

Ma questo dato non ci ha riguardato, non ci ha interrogato su dove stiamo andando, come è successo con i conflitti armati che infettano tanti paesi dall’Africa all’Asia all’America Latina, finché non è arrivata la guerra alle porte di casa non ce ne siamo preoccupati.

Mentre d’estate i picchi di temperatura si vanno alzando di anno in anno, d’inverno avviene il contrario con temperature sotto lo zero che hanno sfondato il tetto dei 60°C (un fenomeno di cui sono occupato in passato, analizzando alcune serie storiche, nel saggio “Eventi Estremi”, Milano, 2011).

Diciamo meglio: mentre la temperatura media del nostro pianeta si alza dal tempo della rivoluzione industriale, i picchi di temperatura, verso l’alto e verso il basso, continuano a sfondare i limiti estremi, rendendo la vita dei viventi, dalle piante agli animali, estremamente difficile.

La vita sul nostro pianeta è stata resa possibile dentro questo intervallo di temperature. In tutti gli altri pianeti le temperature minime e massime vanno ben al di là dei 100°C, e soprattutto le escursioni termiche, come avviene anche sulla Luna, sono insostenibili per come conosciamo la vita sulla Terra.

L’affascinante Venere che va in scena nelle notti d’estate ha una temperatura di 475°C di giorno e di –185°C di notte, che è pari alla temperatura media del gelido Saturno, mentre Mercurio è più bollente dell’inferno dantesco con i suoi 430°C che di notte scendono a -185°C.

Dovremmo avere la consapevolezza di vivere in un posto speciale, ma allo stesso tempo fragile, con un equilibrio che è il risultato di una evoluzione avvenuta in milioni di anni e che noi nell’arco di una generazione stiamo mettendo a repentaglio. Viviamo una profonda contraddizione esistenziale: abbiamo una informazione globale, sappiamo quello che avviene in tante parti della Terra, ma ci preoccupiamo solo di ciò che ci riguarda da vicino, nello spazio e nel tempo.

Noi umani che abitiamo il Pianeta non abbiamo sviluppato una coscienza all’altezza del progresso tecnologico, anzi ci siamo rinchiusi nel nostro “particulare” nell’accezione di Guicciardini, cioè nella sola sfera in cui pensiamo di agire e contare. Solo quando veniamo colpiti direttamente prendiamo coscienza di un determinato fenomeno.

Così sta avvenendo con gli effetti del mutamento climatico che finora ci hanno solo sfiorato rispetto a quegli eventi estremi che si registrano in altri paesi del Sud del mondo.

E’ bene sapere, invece, che dovremmo prepararci ad affrontare anche questi picchi di temperatura, che come è avvenuto in Francia nel 2003, possono provocare migliaia di vittime tra tutti gli esseri viventi. A partire dagli enti locali, dovrebbe essere previsto un piano di emergenza per le ondate di calore così da mettere in sicurezza le fasce più fragili della popolazione.

Le misure necessarie non sono difficili da individuare.

Bisogna evitare gli sprechi della risorsa idrica che sta diventando, e ce ne accorgiamo in questi giorni, sempre più preziosa, così come andrebbe vietato il consumo irresponsabile dell’aria condizionata con le porte aperte degli esercizi commerciali, mentre persone anziane e povere non possono più permettersi di accendere un ventilatore per gli aumenti della bolletta elettrica.

Allo stesso tempo dovremmo adesso cominciare ad occuparci di come ci potremo riscaldare in inverno se dovesse prevalere lo scenario peggiore (zero gas dalla Russia), con un piano che punti al risparmio energetico e ad un uso ben più diffuso delle energie rinnovabili. Dovremmo operare come i grandi marchi della moda che presentano oggi le novità per la prossima primavera/estate.

Infine, dovremmo unire i nostri sforzi, almeno a livello europeo, per affrontare questa crisi climatica e invece facciamo di tutto per alimentare la guerra in Ucraina, ritorniamo ad usare il carbone, non vogliamo operare nessuna riduzione dei nostri consumi inquinanti, e tutto questo lo chiamiamo “ritorno alla normalità”.

da “il Manifesto” del 24 giugno 2022
Foto di Sven Lachmann da Pixabay

Il governo dell’inflazione è una scelta politica.-di Tonino Perna

Il governo dell’inflazione è una scelta politica.-di Tonino Perna

Esattamente cinquanta anni fa si accendeva la spirale inflazionistica in Occidente dopo un lungo periodo di stabilità dei prezzi. In pochi anni divenne la bestia nera dei governi e degli economisti che inutilmente cercarono di controllarla per tutti gli anni ’70 del secolo scorso.

All’origine del fenomeno inflazionistico c’erano più fattori: lo shock del prezzo del petrolio che nel 1973 aumentò in pochi mesi di quattro volte, l’aumento del prezzo di alcune materie prime essenziali per l’industria, e soprattutto la conflittualità della classe operaia. Quest’ultimo divenne nel tempo la causa più rilevante della crescita generalizzata dei prezzi. In breve, alla forza della classe operaia, ai miglioramenti contrattuali e salariali, il capitale rispose nel solo modo che conosceva per ricostruire i margini di profitto, alzando i prezzi delle merci.

In Italia, come è noto, la rincorsa prezzi-salari si interruppe nel 1985 con l’eliminazione della scala mobile che faceva recuperare, seppure in ritardo, il potere d’acquisto dei salari e degli stipendi.

Ma, proprio la fine della scala mobile produsse l’effetto di ridurre progressivamente la domanda di beni di consumo nel mercato interno per cui le imprese italiane spinsero ancora di più l’acceleratore verso i mercato esteri, con l’appoggio dei vari governi che in quegli anni svalutarono più volte la lira.

A sua volta le svalutazioni che favorivano le imprese esportatrici importavano inflazione, in quanto i beni e servizi esteri costavano di più, e riducevano ulteriormente il salario reale dei lavoratori dipendenti e di una parte del ceto medio.

Da quel momento iniziò una redistribuzione della ricchezza nazionale a favore di profitto e rendita, a danno dei lavoratori che progressivamente hanno perso in quarant’anni 15 punti percentuali a favore del capitale, in particolare della rendita finanziaria.

Con la caduta del muro di Berlino nell’89 e l’apertura della Cina al mercato mondiale abbiamo assistito per trent’anni ad una crescita dell’economia mondiale in un clima di stabilità dei prezzi a fronte di una valanga di liquidità monetaria immessa dalle banche centrali, a partire dagli Usa il cui debito pubblico è andato alle stelle. Malgrado questa valanga di dollari immessa dalla Fed, malgrado una bilancia commerciale perennemente e pesantemente passiva, negli States i prezzi restavano stabili.

Questo fenomeno contraddiceva la teoria quantitativa della moneta, per gli addetti ai lavori la famosa equazione di Fisher, ma era facilmente spiegabile con globalizzazione del mercato capitalistico che aveva messo in concorrenza i lavoratori di tutto il mondo, facendo sì che molti beni di largo consumo venissero importati in Occidente con una curva dei prezzi in discesa (basti pensare agli elettrodomestici, abbigliamento, ecc). Così per decenni ne hanno beneficiato i consumatori occidentali, ma sono stati progressivamente colpiti i lavoratori dipendenti nel settore privato dell’economia (disoccupazione e blocco/ riduzione salari reali).

Le imprese europee e nordamericane hanno spostato il conflitto di classe, che le aveva viste in grande difficoltà negli anni ’70, dal mercato interno a quello globale, ponendo le basi per un conflitto tra lavoratori sia a livello locale (scontro con gli immigrati) che internazionale ( il cosiddetto “sovranismo” ha questa base materiale).

Con le sanzioni alla Cina, i danni della pandemia, la crisi del mercato globale, gli Usa sperimentano oggi un tasso di inflazione vicino al 10 per cento che non vedevano dal 1981! E la guerra in Ucraina c’entra poco o nulla. Anzi, da questa guerra per adesso l’economia nordamericana ne beneficia, con l’export di gas, cereali ed armi, al contrario dell ’Unione europea che ne subisce proprio in questi settori un forte contraccolpo. L’inflazione che colpisce gli Usa ha una base strutturale che è correlata alla de-globalizzazione, ben messa in evidenza da Bertorello e Corradi su questo giornale, che non verrà facilmente superata nel breve periodo.

I consumatori e le imprese statunitensi non beneficiano più di una parte di beni importati dalla Cina a prezzi stracciati rispetto allo standard a stelle e strisce. E mentre per la Cina esiste un potenziale allargamento del mercato interno per sostituire i flussi di export, non altrettanto può avvenire negli Usa.

Diversamente nella Ue l’inflazione è dovuta soprattutto all’aumento delle materie prime (non solo petrolio, gas e cereali) ed è dunque una inflazione da costi mentre negli anni ’70 era soprattutto un’inflazione da domanda. Per questo la decisione di aumentare il tasso d’interesse da parte della Bce è un brutto segnale, male accolto dagli operatori di borsa e dalle imprese dell’economia reale. Se continuerà su questa strada la Bce contribuirà a farci entrare più velocemente del previsto nel tunnel della recessione, ovvero nella stagflazione delle cui avvisaglie su questo giornale avevamo scritto un anno e mezzo fa.

Morale della storia: il governo dell’inflazione, su come ridurla e a chi farla pagare, è una scelta politica prima che economica. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, tenere insieme il diavolo e l’acqua santa (ammesso che sia rappresentata da qualcuno!), e quindi non ci si può nascondere dietro le quinte di un governo “tecnico”, e pensare ad un futuro governo delle larghe intese.

da “il Manifesto” del 14 giugno 2022
Foto di Mediamodifier da Pixabay