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Dalla politica all’economia come scienza esatta.-di Tonino Perna

Dalla politica all’economia come scienza esatta.-di Tonino Perna

Non ci è bastato il governo Monti. In ogni fase difficile sembra che in questo paese si possa venirne fuori solo con tecnici prestigiosi, perché i politici sono parolai incapaci. L’idea che passa è che la buona politica coincida con una buona tecnica. La politica non è più l’arte del possibile, secondo una antica definizione, ma un mestiere come quello dell’ingegnere informatico o del dentista. Dietro questo pensiero, sempre più diffuso, c’è l’ideologia della scienza economica come scienza esatta, come la scienza che trova la soluzione migliore per collocare risorse scarse. Per questo sono gli economisti i tecnici più idonei a guidare un paese durante una crisi economica pesante come quella che stiamo attraversando (e non abbiamo visto ancora niente), così come sono i generali a guidare un paese in guerra. Questa è l’ideologia prevalente e, finora, vincente.

E cosa farà il premier Draghi, sempre che riesca a formare un governo stabile, quando si troverà di fronte a scelte difficili? Per esempio: continuerà a bloccare i licenziamenti, come ha fatto finora Conte, o li permetterà indiscriminatamente come vorrebbe Confindustria? E il reddito di cittadinanza, così odiato dalla gran parte delle forze politiche, ma sostenuto strenuamente dal M5S, che fine farà? E rispetto alle diseguaglianze sociali crescenti, rispetto ad un debito pubblico che è arrivato al 160% del Pil quale formula di politica economica potrà adottare per non farlo pagare ai ceti popolari e medi? E la famosa svolta green sarà ancora una volta una riverniciata o una vera conversione ecologica che mette in discussione questo modello di accumulazione capitalistica?

Molte di queste domande contengono le risposte che conosciamo. Purtroppo, quella che si preannuncia è una svolta di segno autoritario per spegnere il fuoco sotto la cenere: la rabbia sociale non avendo più una mediazione partitica esploderà e verrà repressa duramente in nome della salvezza dell’Italia dal caos. In nome della stabilità e della governance dopo aver perso l’articolo 18 i lavoratori dovranno rinunciare ad altri diritti, sempre in nome della salvezza della nazione.

Certo Draghi è molto stimato a Bruxelles e negli ambienti della finanza. Gli va riconosciuto il merito di aver salvato l’Euro e sicuramente il nostro paese dalla speculazione finanziaria sui nostri titoli di Stato. Ci potete scommettere che il giorno che lui dovesse diventare premier la Borsa di Milano, e non solo, avrà un sussulto di gioia, come già i primi segnali dicono. Ci potete anche scommettere che le istanze dei sindacati saranno ascoltate e poi probabilmente bypassate.

Da Bruxelles arriverà il mitico flusso di denaro che momentaneamente potrà dare una boccata di ossigeno. Ma tutte le contraddizioni sociali, territoriali, e istituzionali (rapporto Stato-Regioni) che la pandemia ha fatto esplodere non si risolvono con un semplice aumento del Pil, sia pure rilevante. Dovranno essere prese delle decisioni «politiche», che avvantaggeranno territori e classi sociali diverse, che rafforzeranno il settore pubblico o continueranno a perseguire quei processi di privatizzazione che ci hanno portato tanti danni.

È quasi un anno che serpeggiava il nome del Prof. Draghi, corteggiato dai poteri della finanza e dell’industria, e alla fine è arrivato sulla scena della politica italiana ridotta a tecnica della gestione dell’esistente. Una politica «dragata» potrà avere inizialmente una fase euforica per poi farci cadere nella depressione come fanno tutte le droghe. Con tutti i rischi che conosciamo forse andare a votare sarebbe stato democraticamente più giusto che affidarci all’ennesimo Uomo della Provvidenza.

Vogliamo concludere con una nota di ottimismo: l’essere stato allievo dell’indimenticabile Federico Caffè e avere fatto la specializzazione al Mit con Modigliani, vale a dire con due prestigiosi keynesiani, può aver lasciato una traccia nell’approccio di Mario Draghi alla politica economica. Lo vedremo dal programma e dai fatti.

PS. Ritorna di grande attualità «Per la critica dell’economia politica».

da “il Manifesto” del 5 febbraio 2021

Calabria anni ’80. Un tuffo nel passato, una riflessione sul presente.- di Tonino Perna Rai3 ripropone "Calabria 80", una storica inchiesta sull'economia girata da Annarosa Macrì e Tonino Perna.

Calabria anni ’80. Un tuffo nel passato, una riflessione sul presente.- di Tonino Perna Rai3 ripropone "Calabria 80", una storica inchiesta sull'economia girata da Annarosa Macrì e Tonino Perna.

Nel febbraio del 1980 iniziai a girare, in lungo e largo, nella nostra regione con un team di Rai 3 per realizzare un programma che si intitolava “Calabria ‘80” ed aveva l’obiettivo di indagare sulle attività economiche, sociali e culturali della nostra Regione. Soprattutto di guardare al presente puntando alle prospettive future di questa terra, già allora considerata come irrecuperabile da una buona parte della stampa nazionale.

Da nord a sud, da est ad ovest, incontrammo piccoli e medi imprenditori, aziende localizzate in borghi antichi e sconosciuti, monumenti storici e siti archeologici abbandonati (uno per tutti il castello di Roccella dove pascolavano le pecore), scoprimmo attività impensabili (come la coltivazione del riso a Sibari, o la nascita di una azienda “Internet” a Piano Lago), e i primi timidi tentativi di attrarre i turisti in Calabria.

Girammo per cinque mesi da febbraio a maggio, con l’occhio attento di Tonino Arena, indimenticabile fotografo e prezioso cineoperatore, producendo decine di chilometri di pellicola che poi, con la regia di Annarosa Macrì, montammo nel mese di agosto in una piccola stanza della Rai di Cosenza. Ricordo ancora la quantità di granite che prendevo ogni giorno per vincere un caldo infernale, e lo stress nel decidere i tagli con la forbice della pellicola, il punto giusto, con la paura di sbagliare e perdere un fotogramma definitivamente. Grazie alla competenza, intelligenza e granitica costanza di Annarosa portammo a termine l’operazione in quattro giorni. Alla fine ne ricavammo sette puntate che andarono in onda tra ottobre e novembre del 1980: due dedicate all’industria, due all’agricoltura, una al turismo, una alle cooperative e al Terzo Settore, last but not least alla cultura.

Oggi, dopo quarant’anni, rivedere queste immagini può risultare un utile esercizio per capire cosa è cambiato e cosa è rimasto, dove ci sono stati miglioramenti e dove invece abbiamo solo rimpianti. Una cosa è certa: prenderemo coscienza che la storia non viaggia in linea retta, che il cambiamento c’è stato, in chiaro scuro, con netti miglioramenti in diversi campi, industria-agricoltura-turismo, e peggioramenti nel paesaggio che scriteriate colate di cemento hanno deturpato e nelle relazioni umane, dove si è persa quella gratuità che ci caratterizzava in passato.
Forse, da questa comparazione ne ricaveremo una iniezione di fiducia in noi stessi, in un momento come questo in cui ne abbiamo tanto bisogno. Questo è l’augurio che faccio ai calabresi e a me stesso.
RAI 3 sabato 26 Gennaio e sabato 2 Gennaio ore 7,30.

da “il Quotidiano del Sud” del 24 dicembre 2020

La grande occasione del Sud.-di Tonino Perna

La grande occasione del Sud.-di Tonino Perna

Da una recente ricerca della Svimez emerge un dato di grande rilevanza, che potrebbe rappresentare una svolta storica nel rapporto Nord-Sud nel nostro paese. La Svimez, infatti, ha stimato che nell’anno in corso ben 45.000 giovani meridionali a causa della pandemia sono tornati nel Mezzogiorno, continuando a lavorare in smart working. L’inchiesta è stata condotta su un campione rappresentativo di aziende con oltre 250 addetti, ma prendendo in considerazione il resto dei rientrati (comprendendo insegnanti di scuola e Università) sempre la Svimez stima in circa centomila il numero dei giovani rientrati al Sud che lavorano a distanza.

Per richiamare l’attenzione del ministro Provenzano su questo fenomeno (in quel momento soltanto intuito grazie all’iscrizione dei giovani alle liste regionali per entrare in volontaria quarantena) avevamo scritto una lettera aperta che è apparsa sul Manifesto del 21 giugno ed a cui il ministro ha cortesemente risposto. Purtroppo, a tutt’oggi non vediamo una traduzione concreta di quell’appello che mirava a creare un rapporto stretto tra le istituzioni e questi giovani rientrati nel territorio meridionale.

Ma, quello che non hanno fatto decenni di politiche per il Mezzogiorno, più declamate che fattuali, l’ha fatto l’invisibile mister Covid. Improvvisamente, la fuga dei giovani dal Mezzogiorno non solo si è arrestata, ma si è registrato un, inatteso, grande rientro. Ora, si tratterà di capire quanto di questo cambiamento radicale dei flussi migratori nel nostro paese resterà finita la pandemia. E non riguarda solo il Mezzogiorno, ma tutte le aree esterne al core dello sviluppo economico italiano. Anche nel Centro e nel Nord esistono le cosiddette “aree interne” marginalizzate che hanno visto un rientro di giovani dai grandi centri urbani e aree metropolitane.

Insomma, stiamo assistendo ad un insperato riequilibrio che andrebbe analizzato nei dettagli e accompagnato da politiche che lo incentivino, offendo adeguati servizi: sanità efficiente, connessione digitale, animazione culturale, ecc. Questo “new deal” riguarda non solo il governo, ma anche gli enti locali e il sindacato. Il governo potrebbe incentivarlo sgravando gli oneri sociali alle aziende del Nord per ogni lavoratore in southworking. Gli enti locali potrebbero offrire spazi pubblici gratuiti per il cooworking, oltre a migliorare i servizi pubblici e la connessione digitale.

Ci sarebbe da ripensare il contratto di lavoro in questa chiave di riequilibrio territoriale, che potrebbe offrire dei vantaggi alle grandi città, decongestionandole, quanto alle aree marginali, rivitalizzandole, ma anche agli imprenditori (che potrebbero avere dei risparmi, pensiamo per esempio ai buoni pasto, o ai minori spazi da utilizzare) e ai lavoratori che stando al Sud potrebbero risparmiare sul costo dell’abitazione, sul trasporto, sulla cura della casa e dei figli, ecc. Certo, si perderebbe in socialità, e non è cosa di poco conto, ma si potrebbe anche a pensare a periodi in presenza e periodi di lavoro a distanza.

In breve, si apre una nuova stagione del rapporto tra “luoghi e lavori” che da sempre coincidevano, salvo per sparute élite. Per secoli posto di lavoro e abitazione erano necessariamente vicini e duravano, spesso, per tutta una vita. Adesso, entriamo in una nuova fase che la pandemia ha solo accelerato e che ci offre delle opportunità da non perdere, a partire dal Mezzogiorno.

da “il Manifesto” del 24 novembre 2020
Foto di Alexey Györi da Pixabay

Il sogno di vedere al lavoro Emergency e le reti sociali calabresi. di Tonino Perna

Il sogno di vedere al lavoro Emergency e le reti sociali calabresi. di Tonino Perna

Un essere invisibile, anzi un non-essere, visto che questo virus a Rna non ha vita autonoma, ha sconvolto economia, società e vita quotidiana di mezzo mondo. Ha abbattuto il muro dell’austerity europea, aprendo una autostrada alla spesa pubblica in disavanzo. Ricordiamoci che ancora a novembre dell’anno scorso il nostro governo discuteva di quale zero virgola si poteva sforare il tetto imposto da Bruxelles.

Sempre lui, mister Covid, ha fatto emergere tutte le contraddizioni del sistema sanitario, non solo in Italia, mettendo a nudo i disastri di un processo di privatizzazione della salute. È difficile oggi, almeno in Europa, contestare il fatto che la salute dei cittadini è un bene comune che deve essere goduto, gratuitamente, da tutti i residenti in un determinato paese.

Il Covid ha fatto saltare le contraddizioni di questo modo di produzione, sia sul piano delle diseguaglianze sociali che territoriali. In Italia, poi, è esploso il conflitto tra Stato e Regioni e la maggioranza dell’opinione pubblica oggi vorrebbe il superamento della disunità d’Italia, provocato dalla Riforma del titolo V della Costituzione che ha dato poteri sproporzionati alle regioni (come ha ben denunciato Massimo Villone su questo giornale).

Infine, in questi mesi di incertezza, confusione istituzionale, panico crescente, gli italiani hanno scoperto che esiste una Regione che non sembra far parte dell’Italia e della Ue. Nell’immaginario prevalente sui mass media si tratta di una terra selvaggia, abitata da criminali senza scrupoli, dove tutto è abbandonato, dalle strutture economiche a quelle sanitarie, fino al dissesto idrogeologico che portò Giustino Fortunato a definirla «sfasciume pendulo sul mare».

Dagli anni ’50 fanalino di coda di tutte le statistiche che riguardano reddito, consumi, occupazione, e ai primissimi posti nella graduatoria mondiale della criminalità organizzata, la Calabria è ormai considerata, anche nella sinistra parlamentare, come una Regione a perdere, dove si possono mandare gli scarti della dirigenza nella pubblica amministrazione. Se in tutta Italia la sanità è stata oggetto di ruberie, malaffare e criminalità organizzata, qui sembra che esista solo questo e non ci siano speranze di cambiamento.

Ma, grazie sempre a mister Covid, sono diventate insostenibili, esplosive, le contraddizioni della gestione politico-amministrativa della sanità in questa Regione. Il governo non può più permettersi di sbagliare ancora una volta mandando commissari alla sanità che sembrano usciti da un circo equestre. I calabresi, ovvero quella minoranza che non si è rassegnata, hanno esultato di gioia alla notizia del premier Conte di inviare Gino Starda, il fondatore di Emergency.

Certo non mancano le voci del campanilismo becero («non abbiamo bisogno di stranieri»). Non sanno di che cosa parlano, o forse lo sanno bene e temono di perdere i benefici che il sistema politico calabrese gli ha da sempre garantito. Val la pena ricordare che Emergency è presente nella piana di Gioia Tauro- Rosarno da più di un decennio, lavorando fianco a fianco con i migranti delle baraccopoli-tendopoli dell’area, privi di protezione sanitaria.

Pochi sanno che Gino Strada e la sua Ong dovunque abbiano operato hanno valorizzato le risorse locali, formato giovani medici e infermieri, reso possibilmente indipendenti dall’aiuto esterno i territori in cui operano. Anche qui in Calabria esiste una società civile organizzata che può dare un importante contributo a Gino Strada e alla sua equipe se decidesse.

C’è un consorzio di oltre settanta associazioni, fondato da Rubens Curia, insieme a Progetto sud (forse la più antica e significativa esperienza meridionale di welfare comunitario) che da anni lotta per ottenere i diritti dei malati, dei diversamente abili, dell’infanzia, ecc. Si tratta di mettere insieme un’esperienza internazionale, come quella di Emergency, con le migliori risorse umane che esistono in Calabria, per ridare a questa terra e ai suoi abitanti la dignità e i diritti che gli spettano. Fateci sognare in tempi di lockdown.

da “il Manifesto” del 17 novembre 2020
foto: Ambulatorio Emergency a Polistena (RC)

Sbagliato scambiare questioni sociali con affari criminali.- di Tonino Perna

Sbagliato scambiare questioni sociali con affari criminali.- di Tonino Perna

Il generale dei carabinieri in pensione, Saverio Cotticelli, nominato commissario della sanità in Calabria dal primo governo Conte, sembra arrivato su quella poltrona da un altro pianeta.

Non sa niente sul piano sanitario anti- Covid, scopre che doveva essere proprio lui e non la Regione, a doverlo costruire. Questa storia, tragicomica, fa riflettere sul ruolo del giornalismo d’inchiesta, lavoro prezioso per tutta la comunità nazionale. Ma, allo stesso tempo, scoperchia negligenze, ritardi, mancanza di controllo. C’è da chiedere al ministro Speranza: a) perché non ha cacciato per tempo questo commissario, b) se esiste un sistema di controllo sull’operato di questi commissari o se, una volta nominati, purché non disturbino il potere romano, possono restare al loro posto. C’è da chiedere ai partiti del centro sinistra, all’opposizione nel Consiglio Regionale della Calabria, come mai non si siano accorti che a capo della sanità c’era questo personaggio inqualificabile, irresponsabile, assolutamente non competente.

Adesso se ne è accorto, grazie al giornalista Walter Molino, anche il premier Conte che ha immediatamente dimesso l’improbabile carabiniere-commissario.

Problema risolto? Assolutamente no. Il commissario Cotticelli deve rispondere penalmente dei gravi danni inferti alla salute dei cittadini calabresi, del danno economico alle imprese e ai lavoratori avendo determinato la dichiarazione di zona rossa per la Calabria, con la sua gravissima omissione di atti d’ufficio. Se un commissario rischia solo il licenziamento si pone un grave problema di discriminazione rispetto agli altri cittadini ed amministratori della res publica che rischiano processi penali e civili per ogni infrazione, sia pure senza scopo di lucro.

Ancora una domanda inevitabile: vorremmo capire in base a quale valutazione l’ex ministro Giulia Grillo (M5S) abbia scelto, per gestore un settore così delicato e complesso come la sanità calabrese, un generale in pensione. Siccome non credo che l’on Grillo abbia la voglia di rispondere le posso facilitare il compito.

Si nomina un generale dei carabinieri in pensione per gestire la sanità in Calabria, afflitta da debiti-corruzione-malgoverno, perché si riduce la questione sanitaria a questione criminale.

Così come questo governo ha nominato al ministero dell’ambiente un generale delle guardie forestali, come se la complessità dell’ecologia si potesse ridurre alla repressione delle mafie.

Da quando, anni ’90 del secolo scorso, la “questione meridionale” è stata ridotta a “questione criminale”, la Calabria è diventata l’avamposto di questo brand, per cui nessuno batte ciglio se commissariano decine e decine di Comuni, di enti pubblici, fino ad arrivare al sistema sanitario, comprese le Asp, anche loro commissariate.

Per quanto ne sappia non ho mai visto una commissione d’inchiesta insediarsi per monitorare l’operato di un commissario. Conosco commissari che hanno operato bene, e andrebbero premiati, ma quelli che hanno fatto poco e nulla, che hanno bloccato tutto, lasciando morire d’inedia intere città, preso uno stipendio giusto per tenere in caldo una poltrona, nessuno li ha mai giudicati.

da “il Manifesto” dell’8 novembre 2020

Tonino Perna vicesindaco di Reggio Calabria.

Tonino Perna vicesindaco di Reggio Calabria.

Capita che anche dal mondo politico e civile della Calabria, affondata in tanti disastri, ogni tanto arrivi una buona notizia. E la notizia davvero meritevole di essere festeggiata da chiunque ha a cuore il bene comune di questa terra, è che Tonino Perna è diventato vicesindaco della Città metropolitana di Reggio Calabria.

Certo, a molti calabresi questo nome dirà poco, Tonino non è personaggio che imperversa sugli schermi televisivi, come capita a tanti portatori di chiacchiere a buon mercato che infestano da anni l’etere nazionale. Solo la sua intransigenza morale, il suo non essersi mai legato a cordate o clientele, secondo il costume dominante dal nostro ceto politico, lo ha tenuto lontano da tanti incarichi di rappresentanza politica che avrebbe ricoperto con non comune capacità. E che gli avrebbero, dunque, fornito più ampia visibilità. Anche se Perna, che è stato assessore alla Cultura nel Comune di Messina, nella Giunta Accoriniti, in Calabria è ricordato dalle persone informate per essere stato, tra il 2000 e il 2005, il più bravo presedente del Parco Nazionale d’Aspromonte.

In quella esperienza egli riuscì ad abbassare significativamente il tasso degli incendi estivi, grazie a un sistema di incentivi premiali dati alle cooperative di giovani impegnati nel parco. Un modello imitato poi nel resto d’Europa.
Ma gran parte delle attività di Tonino sono ignote ai più, perché non hanno avuto una adeguata visibilità mediatica. Egli ha speso anni, da giovane, a rendere operativi i rapporti di commercio equo e solidale, con la Ong Cric (Centro regionale di intervento per la cooperazione), di cui è stato fondatore, lavorando soprattutto nei Paesi dell’America Latina, ma battendo anche vari altri scenari internazionali, come quelli dei Balcani.

Sarebbe qui stucchevole elencare tutte le iniziative che si devono alla sua fervida creatività e al suo impegno davvero instancabile, giunti ancora intatti ai suoi attuali 73 anni. Ma va ricordato almeno ch’egli è tra gli ispiratori del movimento dell’Altra Economia, è stato Presidente del Comitato di Banca Etica, ha ideato e promosso l’iniziativa di Mimmo Lucano a Riace, inventando la geniale soluzione della moneta alternativa, per consentire agli immigrati di fare acquisti e di campare in attesa delle sovvenzioni pubbliche, sempre in cronico ritardo.

A Reggio, alle porte della città, ha fondato, insieme con altri amici, un Parco originalissimo, Ecolandia. Si tratta di un’ampia area agricola adibita a varie funzioni: ludiche, ambientali, di tutela e insieme di godimento estetico e culturale. Il parco, di fronte a Scilla e Cariddi, il paesaggio incantevole dello Stretto, è tematizzato, grazie alla presenza di figure simboliche, con rimandi ai miti greci.

Queste attività hanno, però, sempre accompagnato il suo lavoro quotidiano di docente di Sociologia economica presso l’Università di Messina e soprattutto una intensa attività di pubblicista. E’ autore di tanti libri che analizzano le strutture economiche e sociali delle società contemporanee, ma anche di testi teatrali, di romanzi, di favole per bambini. Collabora da decenni al Manifesto con articoli sempre acuti e originali che aiutano a comprendere strutture, processi ed eventi del nostro tempo. Scrive, da molti anni, penetranti e documentatissimi editoriali sulla Calabria ed il Mezzogiorno per il “Quotidiano del Sud”.

E questa versatilità non deve sorprendere, perché corrisponde pienamente alla sua inesauribile inventiva sul versante dell’impegno politico. Infine pare giusto ricordare che è un nonno affettuosissimo e partecipe e dunque, essendo uomo di sinistra radicale (che non significa estremista, ma che va alla radice dei problemi) è personaggio esemplare di cui la Calabria dovrebbe andar fiera.

Piero Bevilacqua, Battista Sangineto, Mimmo Rizzuti, Tomaso Montanari, Vittorio Mete, Vito Teti, Mimmo Cersosimo, Enzo Paolini, Pier Giovanni Guzzo, Angela Barbanente, Luigi Pandolfi, Laura Marchetti, Gianni Speranza, Gianni Latorre, Pietro Fantozzi, Raffaele Tecce, Massimo Veltri, Enzo Scandurra, Filippo Veltri, Lucinia Speciale, Piero Caprari, Giancarlo Consonni, Amedeo Di Maio, Fabio Parascandolo, Pino Scarpelli, Rocco Sciarrone, Alberto Ziparo, Mario Fiorentini, Massimo Covello, Carlo Cellamare, Giuseppe Aragno, Paolo Favilli, Marcello Furriolo, Giovanna De Sensi, Maria Pia Guermandi, Alfonso Gambardella, Carla Maria Amici, Giuseppe Saponaro, Rossano Pazzagli, Saverio Russo, Franco Novelli, Armando Taliano Grasso, Mimmo Passarelli, Osservatorio del Sud,

È tempo di scelte coraggiose, se non ora quando?- di Tonino Perna

È tempo di scelte coraggiose, se non ora quando?- di Tonino Perna

Siamo rientrati in un incubo collettivo. Dove è finita l’Italia indicata dalla OMS, nel mese di settembre, come un modello da seguire a livello mondiale? L’Italia che guardava con sufficienza gli altri paesi europei entrati nell’occhio malefico della pandemia e già pensava al Recovery Fund e a grandi progetti da presentare a Bruxelles. In meno di due settimane è cambiato tutto.

Gli esperti l’avevano preannunciato questa estate, sia pure con cautela, che una seconda ondata sarebbe stata molto probabile. Non gli abbiamo voluto credere, e soprattutto abbiamo fatto ben poco per prevenire, per correre ai ripari ai primi segnali che arrivavano dal resto d’Europa, come se il Bel Paese grazie a una sorta di buona stella – il sole, la dieta mediterranea, il buon governo…- ci avesse immunizzato.

Non bisogna essere scienziati per capire che quando la curva della pandemia mostra una crescita iperbolica abbiamo poco tempo per correre ai ripari. Il nostro sistema sanitario, se non si rallenta l’espansione dei contagi, non è in grado di reggere. Soprattutto nel Mezzogiorno, dove le Regioni hanno fatto ben poco per adeguare i reparti destinati alle terapie intensive, sia come posti letto a disposizione che come personale. Le nuove assunzioni di medici e infermieri sono state assolutamente inadeguate, o addirittura non ci sono state, e oggi ci troviamo di fronte a una tragedia che potrebbe superare quanto abbiamo visto nella scorsa primavera in Lombardia.

Purtroppo, la paura avanza a passi da gigante e sinceramente non vorremmo essere nel ruolo di governatori o premier. Se chiudiamo tutto, o quasi, rischiamo di vedere affossata una debole ripresa economica e, soprattutto, di sotterrare quel poco di speranza e progettualità che si stava ricostruendo. Senza contare i milioni di lavoratori precari, piccoli imprenditori, che finiscono nella miseria e nella disperazione. E’ una situazione simile alla condizione di chi sta per affogare e si è salvato, ma al momento di essere soccorso e salire su una nave cade di nuovo in acqua in maniera rovinosa.

Se invece, continuiamo con blande misure anticovid che colpiscono più l’immaginario collettivo che il virus, allora rischiamo la catastrofe umanitaria con gli ospedali che scoppiano, file di ambulanze di fronte al pronto soccorso, persone gravemente malate che rimangono a casa senza cure. Insomma, siamo di fronte a quella doppia epidemia lucidamente disegnata da Norma Rangeri nell’editoriale di domenica scorsa.

Se possiamo fare un paragone, fatti i dovuti distinguo, è quello con la crisi da stagflazione che colpì l’economia occidentale, e in special modo la nostra economia. Allora, stagnazione economica ed alti tassi d’inflazione ponevano i governi di fronte al dilemma: combattere l’inflazione riducendo la liquidità del sistema, oppure rilanciare l’economia uscendo da una lunga stagnazione. Nel primo caso si abbassava la crescita dei prezzi ma si aggravava la recessione e aumentava la disoccupazione già alta in quel decennio.

Nel secondo caso si favoriva un ulteriore crescita dell’inflazione che colpiva il potere d’acquisto dei ceti a reddito fisso e le fasce più deboli della popolazione. La maggior parte dei governi adottarono una politica dello “stop and go”, che tradotto in altri termini significa “un colpo al cerchio e una alla botte”. Ma, alla fine la via d’uscita si trovò con una ristrutturazione del mercato mondiale, attraverso il decentramento produttivo dell’industria manifatturiera, una compressione dei salari (che in Italia si concluse con la cancellazione della scala mobile), e la vittoria della Thacher in Inghilterra e Reagan negli Usa che inaugurarono l’era neoliberista. Speriamo che nel nostro caso non finisca così!

Certamente non ci troviamo di fronte ad una semplice scelta tra la salute e l’economia, ad una scelta tecnica, ma politica che ridisegnerà il nostro futuro. Se vogliamo salvarci dal Covid 19 (ormai sarebbe più corretto chiamarlo Covid 20) dobbiamo avere il coraggio di scelte drastiche. La politica dei piccoli passi non paga e ci porta nel baratro. Se dobbiamo rallentare la diffusione della pandemia perché le nostre strutture sanitarie non sono in grado di reggere allora finiamola con questi provvedimenti a macchia di leopardo.

Allo stesso tempo garantiamo a tutte le categorie colpite, compresi precari e disoccupati, inoccupati, ecc. un reddito di base, a cui accedere immediatamente senza farraginose procedure. Inoltre, per non continuare a indebitarci, facciamo pagare chi ha continuato a guadagnare da questa situazione, a partire dal mondo della finanza, dagli speculatori che hanno festeggiato durante questo crollo dell’economia reale. In una situazione come questa si impongono drastiche scelte di redistribuzione della ricchezza nazionale, se vogliamo evitare che il paese vada verso il default e la maggioranza della gente s’impoverisca.

da “il Manifesto” del 28 ottobre 2020
Foto di Sebastian Thöne da Pixabay

L’onda lunga della pandemia che rimodella il pianeta. -di Tonino Perna

L’onda lunga della pandemia che rimodella il pianeta. -di Tonino Perna

Siamo entrati improvvisamente e drammaticamente nella seconda ondata della pandemia che sta modificando e ridisegnando le strutture economiche, sociali e politiche in tutto il mondo. Con effetti di lungo periodo, rintracciabili intorno ad alcune questioni di fondo. La prima riguarda l’egemonia cinese. Il paese dove tutto è cominciato è anche il paese che ne è uscito e mentre il mondo va in recessione, la Cina ha ripreso il suo cammino inarrestabile, con un Pil che si stima quest’anno crescerà intorno al 3 per cento.

Se il commercio internazionale ha subito una caduta verticale, la più forte dopo la seconda guerra mondiale, la Cina ha compensato la minor propensione all’export di alcuni settori industriali con un forte allargamento del mercato interno, a partire dal turismo come ci ricorda Simone Pieranni su questo giornale. Una indicazione che sarebbe preziosa anche per l’Italia se ci fosse una svolta nella politica economica che puntasse ad investimenti mirati nel Mezzogiorno, dalle energie rinnovabili alla agricoltura di qualità, al recupero delle aree interne, al potenziamento delle Università e centri di ricerca.

Il secondo effetto duraturo di questa pandemia riguarda le istituzioni democratiche. Il successo cinese, sia nel controllo della diffusione del virus, sia nella capacità di ripresa economica, mette in crisi la democrazia liberale che appare farraginosa, lenta, inefficace.

In più lo “stato d’eccezione”, che scaturisce dall’emergenza generata dal Coronavirus, consente svolte autoritarie che godono inizialmente del consenso della popolazione. Anche in Italia cogliamo i segni di questo cambiamento nell’atteggiamento di alcuni presidenti di regione che fanno gli sceriffi, e nell’uso di un linguaggio bellico che si sta diffondendo in tutta Europa. La democrazia vince se risulta efficace ed efficiente nel contrasto della pandemia senza bisogno di usare mezzi autoritari. Una scommessa difficile.

Il terzo effetto è decisamente positivo. Dopo trent’anni di gloria dell’ideologia neoliberista, di una avanzata che sembrava inarrestabile e coinvolgeva tutti i settori, un virus, entità invisibile, l’ha messa in ginocchio: da questa pandemia ne esce comunque rafforzato il ruolo dello Stato e la necessità di recuperare il ruolo di bene comune della sanità, della scuola, dei servizi sociali. Lo tsunami della privatizzazione che partendo dagli Usa aveva coinvolto tutti i paesi del mondo, è stato arrestato.

Il quarto effetto è devastante: cresce in tutto il mondo la povertà assoluta, le persone che soffrono la fame, che perdono il lavoro. In una economia capitalistica la recessione economica colpisce innanzitutto le fasce più deboli, i lavoratori precari e marginalizzati, il Sud del mondo più del Nord, le piccole imprese più delle grandi multinazionali. Il mercato autoregolato risulta impotente a rispondere ad ampie fasce della popolazione: solo un intervento pubblico può ridurre il malessere sociale provocato da questa recessione generalizzata.

Il quinto effetto riguarda il lavoro e la diffusione dello smart working. Coinvolge soprattutto i lavoratori della pubblica amministrazione e quelli che, nel settore privato, svolgono una attività amministrativa, di elaborazione dati, programmi di software, comunicazione, informazione, ecc.

Crea una divisione forte e inedita in queste dimensioni, tra lavoro manuale e intellettuale, e quindi una ulteriore frattura nel mondo del lavoro già soggetto a profonde frantumazioni. Riduce la socialità, perché il luogo di lavoro è stato nella storia un fattore fondamentale della socializzazione e della presa di coscienza dei lavoratori.

Il sesto effetto riguarda l’impatto ambientale di questo modello di sviluppo. Durante i mesi di lockdown abbiamo registrato una straordinaria caduta nell’emissione della CO2. Finita la clausura siamo ritornati ad inquinare come prima, anzi peggio: la paura del contagio ha aumentato l’uso di mezzi di trasporto privato. I danni che provoca l’inquinamento del pianeta, anche in termini di vite umane, sono stati “sotterrati” dai dati sulle morti da Coronavirus, e tutto il dibattito sugli effetti del cambiamento climatico è stato messo in stand by. Forse uno dei danni maggiori di questa pandemia e di come è stata gestita dai media.

Infine, esiste un impatto che riguarda il nostro rapporto col prossimo, la nostra vita quotidiana.

“Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto” è l’incipit di Elias Canetti nel famoso saggio Massa e Potere; e così proseguiva: “Tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati. Ci si chiude nella case, in cui nessuno può entrare; solo là ci si sente relativamente al sicuro”.

Scritto con altri intenti, Canetti sembra scrivere per noi oggi: è questa la condizione in cui ci troviamo e da cui dovremmo uscire al più presto. La paura dell’altro, con il preoccupante impatto sui bambini che potrà essere stimato solo nei prossimi anni, ha un riflesso immediato sulla polis, sull’agorà, sulla vita sociale e la dimensione politica dell’essere umano. Dobbiamo resistere e, rispettando tutte le norme di sicurezza anti-Covid, continuare a incontrarci, a guardarci in faccia (sia pure mascherati), a non chiuderci nella cerchia familiare e né a ridurci spettatori bolliti davanti alla Tv o al telefonino. Per quanto internet ci abbia tenuti connessi consentendoci di partecipare a conferenze e dibattiti, non potrà mai sostituire l’incontro reale, personale, fisico.

da “il Manifesto” del 22 ottobre 2020
Foto di Clker-Free-Vector-Images da Pixabay

Dalla punta dello stivale un calcio alla Lega.- di Tonino Perna

Dalla punta dello stivale un calcio alla Lega.- di Tonino Perna

La corsa di Salvini si ferma nel profondo Sud. Quella che era stata chiamata la città dei Boia chi molla, dopo la rivolta per il capoluogo, che venti anni fa aveva dato ampi consensi al sindaco postfascista Giuseppe Scopelliti, ferma la corsa di Matteo Salvini. Nella spartizione delle città calabresi il leader della Lega aveva voluto con forza, scontrandosi duramente con i rappresentanti locali di Forza Italia, la città metropolitana di Reggio Calabria, dando in pasto a Fratelli d’Italia e a Forza Italia, rispettivamente Crotone e Cosenza.

I numeri erano dalla sua parte. Tutti i sondaggi davano il centro destra in grande vantaggio, a causa, innanzitutto, di una permanente presenza di spazzatura nella città, di una ricorrente mancanza d’acqua in alcune zone, di buche nelle strade e un generale stato di abbandono. La giunta di Giuseppe Falcomatà, figlio di Italo, il sindaco della primavera reggina negli anni ’90, aveva perso progressivamente il grande consenso iniziale che aveva riscosso nel 2014 con oltre il 60 per cento di voti al primo turno. Tanti di coloro che l’avevano votato non ne volevano più sapere. Le attenuanti non mancavano.

Aveva ereditato un enorme debito dalla giunta Scopelliti che bloccava la spesa corrente, dirigenti comunali nominati dalla vecchia amministrazione che dimostravano scarso spirito di collaborazione, le tasse comunali al massimo come impone la Corte dei conti quando un Comune è in predissesto. Allo stesso tempo, non si potevano nascondere le colpe evidenti: l’avere scelto giovani assessori privi di esperienza e professionalità, il non ascoltare chi gli era vicino, una sorta di supponenza iniziale e la scarsa empatia, che invece era una caratteristica del padre che si era fatto amare e votare anche da una parte del popolo dei “boia chi molla”.

C’erano, in sostanza, tutti gli ingredienti perché Salvini potesse conquistare la prima città metropolitana del Sud. La scelta era ricaduta sul segretario comunale di Genova, tale Antonino Minicuci, nativo di Melito, un Comune della costa jonica reggina. La ragione di questa scelta è riassunta nelle parole del leader leghista: chi ha fatto il nuovo ponte di Genova lo farà sullo Stretto di Reggio e Messina. Non male come marketing elettorale, contando sul fatto che una parte dei reggini vorrebbe il famoso ponte. Ma, Salvini non ha fatto i conti con la memoria del popolo reggino. Chi per anni ha insultato i meridionali in tutti modi non può pensare che basta adesso chiamarli “italiani” in nome di una comune lotta ai migranti, agli ultimi della terra.

Non può pensare che passi inosservata, la sua strategia che punta sull’autonomia differenziata che in nome di un falso federalismo sottrarrebbe al Sud decine di migliaia di miliardi l’anno (esistono diverse stime che vanno da 36 a 60 miliardi!). In fondo, il successore di Bossi non ha abbandonato la stella padana nella sua visione della politica economica, ma per allargare la base del consenso ed arrivare al governo, ha semplicemente sostituito il “Nord” con “Salvini”, e i meridionali con gli immigrati definiti“ terroristi, criminali, parassiti, e untori al tempo del Covid”.

Questa strategia ha pagato in termini di consenso portando la Lega a diventare, nei sondaggi dell’anno scorso, il primo partito italiano con un incredibile 34-36% di intenzioni di voto. Poi, un signor nessuno, quello che sembrava solo un uomo di paglia, un prestanome, con un colpo da maestro della politica l’ha messo fuori gioco. E da allora, lentamente, la Lega con Salvini ha cominciato a perdere terreno, fino ad arrivare alla pandemia che ha fatto emergere il premier Conte ed ha messo in affanno un frastornato e confuso leader leghista che ha continuato a far suonare un disco rotto.

Con la sconfitta a Reggio Calabria, che avrebbe dovuto essere una passeggiata, ci sarà anche una resa dei conti nella Destra tra Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia che proprio in questa città è risultato il primo partito. Ma, soprattutto, suonerà la sveglia per le popolazioni meridionali che si erano fatte abbindolare da un leader padano che faceva finta di parlare italiano, sia pure in forme non ortodosse.

da “il manifesto” del 6 ottobre 2020
foto da pagina fb ufficiale Giuseppe Falcomatà